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Oliver Sacks, storia del neurologo che ha portato la scienza nella letteratura

Scienze

Francesco Guglieri

Oliver Sacks (Getty Images)

"I suoi libri hanno la capacità di raccontare la vita che solitamente riserviamo ai romanzi". E' quanto scrive Francesco Guglieri in un saggio da poco pubblicato da Laterza e dedicato alla "letteratura scientifica per i non scienziati". Eccone un estratto

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Si intitola "Leggere la terra e il cielo", l'ha scritto Francesco Guglieri ed è una piccola guida alla narrativa scientifica arrivata da qualche settimana in libreria per i tipi degli editori Laterza (pagine 184, €17,00). Dai buchi neri al cambiamento climatico, dall'origine dell'universo alle pandemie,  quello di Guglieri è un viaggio nelle opere di scienziati con l'occhio attento e informato di un letterato appassionato. Ne pubblichiamo qui un estratto dedicato allo scrittore e neurologo Oliver Sacks, per gentile concessione dell'editore.

Il dottor P. è un musicista rispettato: dopo una felice carriera come cantante lirico trascorre la maturità insegnando nella locale scuola di musica. È un uomo di grande fascino e cultura, la sua conversazione è tanto brillante e punteggiata da una sapida ironia quanto lucida, precisa, accurata. Non c’è nulla che non vada in lui, o nella sua vita. Almeno così pare. D’accordo, ogni tanto non riconosce subito gli studenti che riceve dopo le lezioni, ma passato un primo attimo di smarrimento riesce a ricordare chi ha davanti e a tenere una conversazione normale. Ma, allora, perché adesso è seduto nello studio del dottor Oliver Sacks, neurologo del Beth Abraham Hospital nel Bronx, New York? Da quale sofferenza cerca sollievo? «A ben osservare, qualcosa di un po’ strano c’era. Parlando, era rivolto, orientato, verso di me, eppure c’era qualcosa di curioso, che però non riuscivo a tradurre in parole. Infine mi venne da pensare che si rivolgeva a me non con gli occhi, ma con le orecchie».

I racconti di Oliver Sacks hanno spesso questa struttura: in una scena apparentemente normale si insinua qualcosa di perturbante, scivola dai bordi della visione un elemento che non si riesce a riconoscere subito, a inquadrare dentro categorie conosciute, qualcosa di così alieno che è addirittura difficile identificarlo come tale. E poi, all’improvviso, quel piccolo dettaglio viene messo a fuoco, balza in primo piano e trasforma ciò che è noto in sconosciuto, ciò che è familiare in qualcosa di spaventoso, il quotidiano nella scena di un orrore senza spiegazione.

Sacks fa spogliare il dottor P. per eseguire alcuni semplici esami medici – forza muscolare, riflessi, coordinamento ecc. – alla fine dei quali chiede al paziente di rivestirsi: «mi voltai ad avvitare l’oftalmoscopio, in attesa che lui si rimettesse la scarpa. Dopo un minuto mi accorsi con sorpresa che non l’aveva ancora fatto.

– Posso aiutare? – chiesi.

– Aiutare chi? A fare cosa?

– Aiutare lei a rimettersi la scarpa».

Ah, certo, aveva dimenticato di rimettersi la scarpa. Strano, sarà stato un momento di smarrimento passeggero. O forse no. «Lui guardava in basso, non la scarpa però, con una concentrazione intensa ma male indirizzata. Infine il suo sguardo si posò sul piede: – È questa la mia scarpa, vero?».

Ecco. Se fosse un film horror, questa sarebbe la scena in cui allo spettatore corre lungo la schiena un brivido di terrore. Perché è il momento in cui capiamo che il dottor P. è con noi, è fisicamente in mezzo a noi, ma allo stesso tempo
è altrove, chiuso in un mondo diverso, impermeabile al nostro, forse inconoscibile. «Il dottor P. vedeva benissimo. Ma cosa vedeva?».

Questa è una delle storie più famose di Oliver Sacks: è contenuta in "L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello", una raccolta di ventiquattro casi clinici di disturbi neurologici, principalmente legati a lesioni dell’emisfero destro del cervello, come agnosia visiva (prosopagnosia), agnosia tonale, amnesia retrograda e sindrome di Korsakov, neuropatie sensoriali, problemi di propriocezione, Parkinson, Tourette e autismo... I casi clinici (ognuno corrisponde a un capitolo) sono distribuiti in quattro sezioni intitolate: Perdite, Eccessi, Trasporti, Il mondo dei semplici. A volte basta l’esposizione dei semplici paratesti di un libro, o la sua organizzazione interna, per restituirne l’anima o, quantomeno, per lasciarne intuire l’essenza. I libri di Sacks sono così: l’unione di due cose apparentemente distanti, incongruenti, ad esempio dei casi clinici e uno sguardo poetico, romanzesco, per gli eccessi, le perdite, per ciò che ci lasciamo dietro e continuiamo a cercare, qualcosa di invisibile con cui facciamo costantemente i conti. Lo scrittore inglese Julian Barnes una volta scrisse: «metti insieme due cose che insieme non sono mai state e il mondo cambia». Oliver Sacks è stato uno di quegli scrittori in grado di cambiare il mondo di chi lo legge.

Ma torniamo allo strano caso del dottor P. Seguono altre analisi: Sacks lo mette di fronte a una rivista, in copertina c’è l’immagine di un deserto, distese infinite di dune di sabbia. «Vedo un fiume», dice il dottor P., «e un piccolo albergo con
la terrazza sull’acqua. Sulla terrazza c’è gente che mangia». Lo stupore di Sacks, scommetto, sarà stato evidente: anche un medico esperto come lui sarà stato spiazzato da una risposta tanto strana. Al termine della visita, il paziente si guarda intorno in cerca del cappello. «Allungò la mano e afferrò la testa di sua moglie, cercò di sollevarla, di alzarla in capo. Aveva scambiato la moglie per un cappello!».

Se da una parte il mondo del dottor P. sembra perfettamente normale, coincidente in tutto e per tutto col nostro, dall’altra pare che egli viva in una dimensione diversa, in cui la moglie può essere un cappello, un piede diventare una scarpa e la realtà condivisa da chi lo circonda arrivargli soltanto attraverso labili segnali, come il suono di una voce, o il ricordo di una determinata qualità (ad esempio la presenza di baffi, o la massa dei capelli). È attraverso questi trucchi che il dottor P. riesce ancora a vivere nel nostro mondo, come quando visitiamo un paese straniero di cui ignoriamo la lingua e dobbiamo ricorrere a tutta la nostra astuzia per orientarci, per intuire i significati dei cartelli o il senso delle usanze. Un viso, ad esempio, gli appare come una serie di qualità astratte – la forma, il colore della pelle... – che non danno mai la sintesi di un «tu». Il dottor P. vive in un mondo di «essi».

Ma come fa a vivere, a orientarsi tra le cose di tutti i giorni?, chiede Sacks alla moglie del dottor P. Con la musica, risponde lei: «Canta continuamente: canta per mangiare, per vestirsi, per fare il bagno, sempre. Non riesce a fare nulla se non lo trasforma in melodia». Parlando con la signora, l’attenzione di Sacks cade sui quadri alle pareti. Il dottor P. è anche un pittore dilettante di un certo talento. I quadri sono appesi in ordine cronologico: si passa dalle opere realistiche dei primi anni a composizioni sempre più astratte, geometriche, cubiste. Gli ultimi quadri sono linee caotiche, macchie irregolari di colore. Ma dove la moglie ci vede un’evoluzione artistica, Sacks ci legge un percorso patologico: «un percorso diretto verso una profonda agnosia visiva».

A seguito dei danni cerebrali prodotti – come si scoprirà in seguito – da un tumore, il dottor P. era affetto da una profonda agnosia visiva che gli impediva di riconoscere forme, oggetti, visi: era andata via via distrutta ogni facoltà di raffigurazione, ogni possibilità di passare dagli schemi astratti agli oggetti concreti, agli individui singoli. Non vedeva la persona attraverso la persona (nel senso latino del termine). Il suo cervello non era in grado di formulare giudizi cognitivi (questa forma è mia moglie o un cappello?): «un giudizio è intuitivo, personale, comprensivo e concreto», è il modo in cui vediamo le cose, in cui misuriamo le distanze tra noi e gli altri. È il modo in cui, giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, costruiamo il mondo che abitiamo e a cui diamo un senso. L’impossibilità del dottor P. di accedere a questo mondo, si chiede Sacks, è un difetto dell’elaborazione dell’informazione visiva, come direbbe la neurologia classica, oppure il problema è da cercare nell’atteggiamento del dottor P., nel non essere in grado di mettere in relazione ciò che vede con sé stesso? Non dobbiamo per forza scegliere, conclude Sacks, non sono due alternative che si escludono, ma solo tenendole a mente entrambe capiremo qualcosa di come funziona non il cervello, ma l’essere umano: «Certo, il cervello è una macchina e un elaboratore, e la neurologia classica ha perfettamente ragione. Ma i processi mentali, che costituiscono il nostro essere e la nostra vita, non sono soltanto astratti e meccanici, sono anche personali; e in quanto tali implicano non solo la classificazione e l’ordinamento in categorie, ma anche una continua attività di giudizio e di sentimento. Se ciò va perduto, finiamo, come il dottor P., per assomigliare a degli elaboratori».

Le piccole storie di Sacks, così vivide, così affollate di personaggi e particolari, sono un tentativo di rendere conto anche di quest’altro aspetto: sono un tentativo di raccontare il giudizio individuale, il sentimento, l’elemento personale. Di nuovo, di mettere insieme due cose che insieme non sono mai state, o lo sono state molto raramente: il particolare di ciò che è umano, quella musica sempre diversa che è la vita di ciascuno, e l’universale dello sguardo scientifico, la sua capacità di render conto dell’invariabile, di ciò che è costante, della legge. Il rischio, altrimenti, per la neurobiologia è di fare la fine del dottor P., di ritrovarsi a muoversi in un mondo astratto di schemi che non precipitano mai in un individuo.Non ho dubbi che, tra tutti gli autori che raccontano la scienza, Oliver Sacks sia quello che ne ha fatto maggiormente materia per la letteratura. I suoi libri, tutti, non solo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, hanno la capacità di raccontare la vita che solitamente riserviamo ai romanzi. E come in un romanzo, o in una raccolta di racconti, sentiamo risuonare tra le pagine della storia la voce inconfondibile del suo autore: affabile, umana, sempre partecipe delle sofferenze provate da quegli uomini e quelle donne che prima di essere personaggi sono esseri umani. E guidati da questa voce quasi non ci accorgiamo dove ci sta accompagnando: nei meandri dell’oggetto più complesso dell’universo, sul pianeta più alieno e ancora in gran parte sconosciuto. Il cervello umano. © 2020, Gius. Laterza & Figli

Francesco Guglieri, saggista e critico, dopo il dottorato in Letterature comparate ha lavorato all’Università di Torino e all’Università di Genova. Scrive, tra l’altro, per “la Repubblica (“Robinson” e “Il Venerdì”), “Il Sole 24 Ore” (“IL”) e “Rivista Studio”.