David Quammen mette in guardia: "Dopo il Covid, lo spettro dell'aviaria"

Con lo scoppio del Covid-19 si è guadagnato l’appellativo di “profeta”, perché nel 2012 nel saggio “Spillover” aveva delineato un futuro fatto di virus che saltano di specie dopo sei lunghi anni di viaggi tra foreste congolesi, fattorie australiane e, appunto, mercati cinesi, ma David Quammen, scrittore e divulgatore scientifico, è prima di tutto un grande narratore. Il suo lavoro da quarant’anni è quello di visitare i luoghi remoti della Terra in compagnia di scienziati dei campi più disparati della conoscenza, da quella faunistica e botanica a quella medica. Si mette in cammino con loro, in estenuanti spedizioni, passa giornate all'interno di laboratori, ascolta gli esperti, raccoglie informazioni e poi scrive, arrivando a una sintesi accurata che non rinuncia alla bella scrittura. Va oltre il saggio, lambendo il noir, il poliziesco, il romanzo d'avventura. Del resto, prima di diventare uno dei più grandi divulgatori scientifici e bestsellerista, ha esordito come romanziere e si è laureato a Yale con una tesi su Faulkner. Non ha mai del tutto rinnegato il suo passato e con esso gli strumenti della fiction, perché per spiegare la scienza al pubblico, pur nel rigore, bisogna saper raccontare storie, “to be a good story-teller”, direbbe lui. La sua ultima fatica, “Il cuore selvaggio della terra”, edito da Adelphi, è la conferma che sapere scientifico e cultura umanistica possono convivere senza forzature. Dalla fine degli anni Novanta, grazie alla collaborazione con National Geographic, Quammen è stato inviato in giro per il globo e ha collezionato un mosaico straordinario, quello della biodiversità. Ogni reportage, o forse sarebbe meglio dire “racconto di viaggio, è una tessera. Ogni pezzo è unico e irreplicabile. Serviva un volume unico per mettere insieme tutti questi frammenti e scoprire l'opera d'arte della natura. Un'altra profezia? No, piuttosto un avvertimento. Tutta la bellezza che si incontra tra le pagine è in pericolo e il cuore selvaggio della terra batte sempre più flebilmente. Lo abbiamo incontrato al Festivaletteratura di Mantova. Se dovesse aggiungere un capitolo al suo libro e includere un reportage dell’Italia, dove andrebbe? Vengo in Italia almeno una volta all’anno, amo questo Paese. Normalmente vengo per parlare dei miei libri e dei miei lavori più che per fare reportage, ma se il National Geographic o altri giornali mi mandassero in Italia per lavoro tornerei in Sicilia per i suoi panorami affascinanti e remoti. E sceglierei anche Trieste: ci sono stato per pochi giorni e ne sono rimasto incantato. Sono le differenze dell’Italia che la rendono speciale, mondi distanti tra un capo e l’altro della penisola che si riflettono sull’ambiente e sulla natura. Amo gli estremi. Un’altra cosa che mi piace dell’Italia è la sapienza della sua antica civilizzazione. Qui ci sono ancora lupi e orsi e questo non è scontato, perché l’Italia ha saputo preservarli a differenza di altri Paesi. Vorrei andare sulle montagne con i biologi che studiano questi animali e scriverne un libro. A proposito di Sicilia, di quest’isola si è molto parlato negli ultimi mesi per l’emergenza siccità legata al cambiamento climatico. Vede altri segni nel nostro Paese? Malattie come la dengue proliferano anche a causa del cambiamento climatico: se nel mondo globalizzato e interconneso aumentano i casi, è anche per il climate change che si esprime attraverso la diffusione ed estensione di nuove malattie. Questo mi sembra un segno non indifferente. Se allarghiamo lo sguardo, qual è il luogo della Terra che la affascina di più? Per vent’anni il National Geographic mi ha mandato in luoghi incontaminati della Terra: dal Cile all’Argentina, all'estremo est della Russia, in Kamčatka, nell’Artico russo, ma tutto ha avuto inizio in Congo. Mi sono unito a una spedizione e ho camminato per 53 giorni nella foresta con uno scienziato che stava esplorando quell'area per identificare i posti con maggiore biodiversità. La sua fu un'esplorazione di ben 456 giorni, mentre io lo seguii per quattro segmenti di viaggio. La foresta del Congo centrale è il posto più affascinante, impegnativo e in qualche modo più importante che ho visitato, un posto difficile e per questo incredibile. Ha citato il Congo ed è proprio la Repubblica democratica del Congo al centro delle cronache per l’emergenza vaiolo delle scimmie. Ci stiamo dimostrando pronti ad affrontare questa crisi? Abbiamo avuto una grande pandemia, quella del Covid, e stiamo ancora uscendo fuori da questo tunnel. Per alcuni esperti ce n'è un’altra che sta arrivando. Gli scienziati con cui ho parlato dicono che, sì, dovremmo prepararci alla prossima epidemia virale, perché ci sono virus in ogni animale, pianta, ogni creatura di questo Pianeta e si tratta di virus che possono arrivare all’uomo, alcuni capaci di creare delle pandemie. Stiamo sentendo parlare molto di Mpox che è un serio e pericoloso virus che ha ucciso circa 700 persone in Africa da gennaio, ma non è il genere di virus che potrebbe causare una pandemia globale, perché non è un virus respiratorio, non si trasmette facilmente attraverso l’aria. Dobbiamo aiutare i Paesi africani e nello stesso tempo dovremmo osservare con attenzione virus che si trasmettono per via aerea, come l’influenza aviaria, che è quella che gli esperti stanno monitorando con più preoccupazione. La prospettiva che la N5H1, l'aviaria, possa diventare un virus umano preoccupa. “Il cuore selvaggio della terra” è un trionfo di colori. Ogni reportage è un’occasione per mettere in guardia dal pericolo del declino della biodiversità e di un mondo che si appiattisce. Come stiamo affrontando la questione della preservazione della diversità biologica? Il declino della biodiversità a livello mondiale è uno dei grandi danni causati dall’uomo. C'è chi pensa che il nostro problema sia il cambiamento climatico e che il cambiamento climatico racchiuda tutti gli altri problemi, ma ho già detto e continuo a dire che ne abbiamo tre di grandi problemi, come tre grandi fiumi in ebollizione che scorrono in parallelo e provengono dalla stessa fonte. Si tratta del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’emergenza rappresentata dai nuovi virus umani. Sono problemi separati ma interconnessi e tutti derivano dalla stessa causa e la causa è la dimensione della popolazione mondiale moltiplicata per i consumi. Siamo 8 miliardi e stiamo andando verso i 9 miliardi. Spero ci stabilizzeremo su questo numero. Molti pensano che il problema sia la natalità: troppe persone, troppi bambini, l’eccessiva crescita demografica, ma il problema è proprio la crescita della popolazione moltiplicata per i consumi. Nei Paesi ad alto reddito generalmente consumiamo più di quanto dovremmo e molto più per persona e per famiglia rispetto ai Paesi a basso reddito. Dobbiamo agire secondo equità e giustizia e tenere conto del nostro impatto in termini di cambiamento climatico, perdita della biodiversità e epidemie. Lei gira per il mondo, ma è negli Usa la sua casa base. Come viene affrontato il dossier ambiente nella campagna elettorale americana? Sul fronte delle elezioni americane abbiamo due candidati molto diversi e uno dei due non sta affatto parlando di problemi ambientali, di cambiamento climatico, di biodiversità, perché questo candidato, Donald Trump, si preoccupa solo del proprio benessere. I problemi legati alla biodiversità e al cambiamento climatico sono lontanissimi dalla sua testa e dai suoi interessi. L’altra candidata Kamala Harris sta affrontando la questione del cambiamento climatico fortunatamente, ma non è un dossier al centro delle elezioni statunitensi, e non è al centro del dibattito politico neanche in altri Paesi e in Italia, come invece dovrebbe essere. Dobbiamo continuare a fare il possibile per tenere alta l’attenzione del pubblico. Come immagina il mondo del futuro? Se passassimo all’azione controllando la crescita della popolazione in relazione all'aumento dei consumi e arginando i combustibili fossili, allora credo che si potrebbe stabilizzare la situazione e contenere la perdita di biodiversità prima di arrivare al punto del disastro, prima di trasformare questo mondo in un posto più noioso, desolato e brutto rispetto al Pianeta che ci è stato dato in eredità dai nostri antenati. Sono fiducioso che ce la faremo, perché penso che la speranza sia un dovere.