Tre italiani "spaziali" alla Nasa, ma non chiamateli cervelli in fuga: le loro storie

Tre italiani doc. Fanno parte della nutrita pattuglia di scienziati e ricercatori del nostro Paese che lavorano in California per la Nasa, al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. In comune hanno una cosa: non si sentono cervelli in fuga. Ecco le loro storie. Un posto dove fare cose non impossibili ma improbabili Marzia Parisi da otto anni è nel posto dove aveva sempre sognato di lavorare. Partendo dal motto del JPL, Dare mighty things , lo descrive come un luogo dove realizzare cose non impossibili, ma improbabili. È quello che prova a fare lei ogni giorno. Fa parte del team dell’esperimento di gravità della missione Nasa Juno, la sonda attiva attorno al pianeta Giove dal 2016. “Io sono stata sempre appassionata di matematica, fisica, scienza e probabilmente sono stata anche condizionata da alcuni film di fantascienza visti negli anni Novanta” ci racconta in una sala dedicata alle visite guidate e alle conferenze del centro di ricerca della Nasa, davanti a un modellino della sonda Cassini. Le chiediamo se c’è una pellicola che l’ha segnata particolarmente e lei, sorridendo, confessa che si tratta di Armageddon, il film con Bruce Willis sull’asteroide che minaccia di colpire il Pianeta Terra. “La trama è un po’ improbabile, ma io ero rimasta colpita dal personaggio di Truman, che da terra dirigeva le operazioni. All’epoca mi dissi che il suo era un lavoro molto interessante e anche se oggi non faccio esattamente quello che faceva lui, trovarsi al centro di una missione spaziale può portare a quel senso di esaltazione, soprattutto davanti a nuovi risultati e a scoperte”. Marzia Parisi, grazie alla missione Juno è stata anche nella dark room del JPL, la sala controllo dove si ricevono i dati delle missioni lanciate nello spazio profondo, quella per intendersi dove si vedono scienziati e ingegneri trepidare mentre si attende il segnale da una sonda o da un rover inviati alla scoperta di un altro pianeta. Un’esperienza che lei definisce soprattutto silenziosa: “quando si entra in posti come quello lo si fa per molte ore e bisogna mantenere un certo tipo di atteggiamento e di rigore. Le prime volte è stata un’emozione forte, nel mio caso io ero là per verificare la ricezione dei dati su Giove che ci servivano dalla sonda Juno; si tratta di esperimenti che possono durare per molte ore in un ambiente che da un punto di vista pratico deve risultare anche accogliente per chi si occupa di queste operazioni”. Le chiediamo quale sia stato in questi anni il suo contributo alla missione Juno: “Gli esperimenti di gravità, per dirla in soldoni, studiano la struttura interna dei pianeti. La nostra squadra, visto che Juno è in orbita attorno al Pianeta Giove, misurandone il campo di gravità cerca di determinare la sua struttura interna e la sua dinamica; in particolare il mio contributo è lo studio dei venti fortissimi che si vedono sulla superficie del pianeta e che penetrano a una certa profondità, si parla di migliaia di chilometri. La sonda Juno ha viaggiato particolarmente vicino alla Grande Macchia Rossa, il vortice che si vede nell’emisfero meridionale di Giove, e grazie ai suoi dati siamo riusciti a determinare la profondità di questa tempesta”. Perché è importante indagare anche sulla presenza di acqua e di oceani sotterranei sulle lune di Giove e di altri Pianeti? Stiamo parlando di uno degli obiettivi strategici della Nasa, ovvero la caratterizzazione di ambienti potenzialmente favorevoli allo sviluppo della vita, qualcosa di molto più concreto e pratico di quanto si possa pensare. Non si tratta di extraterrestri, ma appunto di ambienti in cui ci siano gli ingredienti della ricetta della vita. Ad esempio, io ho lavorato sulla missione Cassini - la sonda robotica lanciata per studiare il sistema di Saturno - durante il mio dottorato all’Università di Roma La Sapienza. Anche in questo caso come per Juno il mio contributo era legato all’esperimento di gravità ma molto focalizzato sulle lune, in particolare Encelado, e nel 2014 abbiamo pubblicato il lavoro che confermava la presenza di un oceano sotterraneo su questa luna di Saturno. Nel suo percorso di studi Marzia Parisi non si è mai vista come un cervello in fuga: “non l’ho mai pensata in questi termini e non mi sento delusa dall’Italia. Credo che, a seconda degli interessi che uno sviluppa, la vita poi ti porti in determinati posti e nel mio caso dopo otto anni il JPL è come casa, anche se all’inizio mi faceva un certo effetto la mattina venire in questo luogo, dove sono state formulate tante missioni. Per me è fondamentale trasmettere l’importanza di quello che facciamo, perché davanti alla vita di tutti i giorni che ti costringe a restare concentrato su cose pratiche come il mutuo e le bollette l’esplorazione del sistema solare può sembrare qualcosa di surreale, ma in realtà proseguire in questi studi e andare oltre è importante per l’avanzamento della nostra specie". Un posto dove costruire una missione dalla A alla Z Marco Lavalle è il vicecapo scienziato della missione NISAR. Il suo ruolo è quello di supervisionare le attività scientifiche e di coordinare il team di scienziati che lavorano al progetto, una collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Indiana nata oltre dieci anni fa. Originario di Tricarico, un piccolo paesino della Basilicata in provincia di Matera, ci racconta che sin da piccolo amava la matematica e la fisica, passava il tempo a costruire oggetti e capire come funzionavano, e arrivare al JPL è stato il culmine di questo suo sogno di fare scienza. Oggi, dopo dodici anni, non si sente più un cervello in fuga, lavora tanto con colleghi in Italia e in Europa, e quando parla con loro si sente un po’ come un cervello che ritorna. “Sono ingegnere di formazione e il Jet Propulsion Laboratory è stato molto motivante da questo punto di vista per me. È un posto incredibile, il centro di eccellenza per l’esplorazione dello Spazio e per l’osservazione della Terra. Qui si respira un’aria di squadra, di lavoro di gruppo e soprattutto si ha l’opportunità di costruire una missione dall’inizio alla fine. In questo laboratorio, camminando tra gli edifici, incontri persone che si occupano di orbite, di strumenti, scienziati e manager, tutto il team che serve per costruire una missione complessa, come è ad esempio Nisar”. NISAR è una missione che nasce da una collaborazione tra l’Agenzia spaziale americana e quella indiana. Impiega un radar ad apertura sintetica a doppia frequenza su un satellite di osservazione della Terra. Obiettivo: acquisire, con una precisione senza precedenti, dati utili a comprendere fenomeni climatici come lo scioglimento dei ghiacciai e i mutamenti che interessano la crosta terrestre. Quant’è importante la tecnologia radar per ottenere i dati che state cercando? Il radar è uno strumento unico per l’osservazione della Terra perché ha la caratteristica di funzionare indipendentemente dalla illuminazione del sole. Trasmette degli impulsi di energia che penetrano le nuvole indisturbati e poi rimbalzano sulla Terra portando con sé l’informazione della struttura della superficie. Inoltre, il radar permette di ottenere delle immagini che sono sistematiche; quindi, ad ogni passaggio del satellite se ne avrà una e questo è molto importante. Con Nisar viaggeremo a 750 chilometri sopra la superficie della Terra e questo ci consentirà di guardare ad aree molto ampie, su scale temporali molto lunghe, acquisendo dati critici per lo studio del nostro Pianeta. La missione, che verrà lanciata a breve, resterà in orbita per almeno tre anni. In pratica noi saremo un po’ un occhio costante sulla Terra che fornirà agli scienziati degli strumenti quantitativi e dei dati da cui estrarre informazioni per capire in quale direzione muoversi dal punto di vista, ad esempio, del climate change. Prima di congedarci, Marco Lavalle ci tiene ad aggiungere un’ultima cosa: “Nisar nasce sì da una collaborazione tra la Nasa e l’Agenzia spaziale indiana ma si sviluppa a beneficio di tutta la comunità scientifica globale. Quando si parla di scienza - conclude il Deputy Project Scientist della missione - non ci sono frontiere, i dati saranno visibili e disponibili a tutti, da qualsiasi parte del mondo. Ognuno potrà accedervi on line e studiare la Terra grazie a questo satellite”. Il posto dove si scrivono i libri “Il JPL è un posto speciale, il posto dove si scrivono i libri”. Parola di Cinzia Zuffada, che è al Jet Propulsion Laboratory da 32 anni e fino al maggio del 2023 è stata Deputy Chief Scientist del laboratorio. Ha iniziato come ricercatrice fino a diventare una senior leader con responsabilità nella direzione dei fondi di ricerca interni e dei programmi di collaborazione con le università. Anche lei non si sente un cervello in fuga, è contenta di aver passato qui la sua vita lavorativa e si augura di aver dato al JPL almeno una piccola parte di tutto quello che sente di aver ricevuto lei. “È stata un’esperienza che non solo mi ha dato la possibilità di dare un contributo a delle tecnologie nuove, che non esistevano e che adesso sono diventate di routine per il telerilevamento della Terra, ma anche di contribuire in modo sostanziale come senior leader al benessere della comunità di ricerca del JPL”. Lei da anni si impegna per stimolare la collaborazione tra il mondo della scienza italiana e quello statunitense. Perché è così importante la collaborazione, soprattutto nel campo delle scienze spaziali? Perché è dalla collaborazione che nasce quella che possiamo chiamare la fertilizzazione incrociata delle idee. Persone che vengono in contatto, in un'atmosfera in cui sono incoraggiate a scambiare idee, ad essere propositive e insieme si arriva spesso a delle vere e proprie scoperte o all’identificazione di soluzioni nuove e migliori rispetto a quelle che sono presenti sul campo. Ritiene che, nel settore delle STEM, ci sia ancora un problema di gender balance? Sicuramente credo che ci sia ancora un problema di gender balance per quanto riguarda la rappresentazione delle donne nel settore STEM. Ce lo dicono i numeri. Detto questo, negli Stati Uniti ho visto personalmente un impulso all’equity, al miglioramento di queste dimensioni che vengono chiamate diversity tra le quali il gender è una, e quindi un impegno a livello organizzativo. Un’organizzazione come il JPL si è impegnata dall’alto, e questa politica ha permeato un po’ tutte le attività e si sono visti in una certa misura dei risultati. Che consiglio darebbe a una ragazza che intende intraprendere la sua strada e volesse magari venire al JPL? Io vorrei incoraggiare tantissimo le ragazze che vogliono intraprendere una carriera in ambito scientifico, iniziando dalla valorizzazione personale e dal credere in loro stesse, senza mettere in dubbio le proprie capacità laddove c’è un impegno e ci sono doti naturali. Direi che nella mia generazione spesso le donne tendevano ad essere definite dagli altri, come la famiglia e l’altro sesso, in vari contesti. Quindi a una ragazza direi soprattutto: non lasciarti definire dagli altri! Nella sua carriera si è mai sentita un cervello in fuga? No, perché non mi sono mai vista come una persona in fuga, che aveva deciso in qualche modo di lasciare un contesto e cercare una soluzione diversa. Nel mio caso la scelta di trasferirmi negli Stati Uniti si è sviluppata in modo organico. Mi sarebbe piaciuto, nella mia traiettoria, avere forse più opportunità di lavorare da vicino con l’Italia e di continuare a farlo. Non è stato possibile e credo che sia ancora così, perché comunque quando si vive in un contesto, sia questo del JPL o un altro negli Stati Uniti, è molto diverso da un ambiente italiano e la coesistenza, il lavorare su due sponde sono ancora cose difficili da fare. Mi auguro che in futuro diventino più facili e che quindi sia possibile non fuggire da una parte per andare nell’altra, ma navigare un po’ quell’universo in mezzo fermandosi su tutte e due le sponde.

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