Rapporto Gimbe: un italiano su 10 rinuncia alle cure

Salute e Benessere

La salute sta diventando un privilegio? Cresce il numero di cittadini che non riescono ad accedere alle prestazioni sanitarie pubbliche, aumentano le disuguaglianze territoriali e il peso della povertà

A cura di Ludovica Addarii

 

Nel 2024 oltre 5,8 milioni di italiani sono stati costretti a rinunciare a visite specialistiche, esami o cure sanitarie, pari a un cittadino su dieci. È quanto emerge dall'ottavo Rapporto Gimbe pubblicato ad ottobre 2025, che fotografa una situazione di crescente difficoltà nell'accesso alle prestazioni sanitarie, anche nelle regioni del Nord, storicamente ai vertici delle classifiche LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).

"Il fenomeno in crescita evidenzia come la capacità di erogazione delle prestazioni non riesca più a soddisfare la domanda di salute. Quando i cittadini non sono in grado di sostenere i costi della sanità privata, la rinuncia alle prestazioni cura rimane l'unica alternativa", si legge nel rapporto.
 

Le due cause principali di rinuncia

Quando i tempi del pubblico diventano insostenibili, molte persone sono costrette a rivolgersi al privato; ma se i costi superano la capacità di spesa, la prestazione diventa un lusso e, alla fine, l'unica scelta possibile è rinunciare.

Il netto aumento delle rinunce a visite specialistiche ed esami registrati nel 2024 è dovuto soprattutto alle lunghe liste d'attesa per accedere ai servizi del Sistema Sanitario Nazionale. Se nel 2022 erano “solo” 2,5 milioni i cittadini che hanno desistito dal curarsi per i tempi prolissi, ad oggi sono saliti a 4 milioni, con un aumento del 60% nell'arco di due anni.

Ma anche le difficoltà economiche continuano a pesare. La quota di chi rinuncia  per motivi economici è aumentata da 1,9 milioni di persone nel 2022 a 3,1 milioni di persone nel 2024.

 

Il legame tra povertà e salute

La rinuncia alle prestazioni sanitarie è, dunque, un fenomeno strettamente connesso alle condizioni economiche in cui versa il nostro Paese. Secondo gli ultimi dati Istat, l'8,4% delle famiglie italiane vive in condizioni di povertà assoluta. L'incidenza però, a livello territoriale non è uniforme su tutta la Penisola: arriva al 10,2% nelle Isole e nel Sud, all'8% nel Nord-Ovest, al 7,9% nel Nord-est e si assesta al 6,7% nel Centro.

Se la disponibilità economica è un fattore determinante per la capacità che le persone hanno di curarsi, e se circa 2,2 milioni di nuclei domestici in Italia vivono in stato di povertà assoluta, ciò che ne consegue è un peggioramento generale delle condizioni di salute a livello nazionale. A risentirne è soprattutto l'aspettativa di vita media alla nascita, che al momento è di 83,4 anni. Neanche questo è un dato omogeneo, proprio perché riflette quella che è la situazione economica nelle macroaree della Penisola, una vera e propria “geografia della salute”. Si passa dagli 84,7 anni della Provincia autonoma di Trento, agli 81,7 anni della Campania, con una differenza di tre anni di vita.

Come evidenziato dalla fondazione Gimbe, “In tutte le otto regioni del Mezzogiorno l'aspettativa di vita è pari o inferiore alla media rappresentando una spia indiretta delle gravi criticità dei servizi sanitari regionali e della maggiore incidenza della povertà assoluta".

Quella che viene restituita è un'immagine di un Servizio Sanitario Nazionale sotto pressione, in cui l'accesso alle prestazioni è sempre più condizionato dalle risorse economiche e dal territorio di residenza, dove il rischio è quello far diventare un diritto che dovrebbe essere garantito a tutti, un privilegio esclusivo di coloro che possono permetterselo.