Cosa proviamo quando una madre uccide suo figlio?

Prego, scomodati ché parliamo di quello che non vorremmo mai nemmeno pensare. In queste ore la cronaca ci ha consegnato due notizie difficili da ricevere, probabilmente ancor più per via della loro prossimità temporale. Prima ancora di aver potuto smaltire la prima ci ha investiti la seconda, come a ricordarci - tragedia nella tragedia - che sì, non accade solo nei teatri della Grecia di Euripide: può accadere che le madri uccidano i figli. Nella mente collettiva il riferimento del nostro tempo è certamente Cogne: una villetta isolata, una severa comunità montana, una madre condannata per l’omicidio di un bambino riverso nel suo letto con il capo fracassato. Chi ha almeno trent’anni potrebbe ancora disegnare a memoria il paesaggio restituito dalle immagini di tutte le televisioni, ricorderà Annamaria Franzoni al Maurizio Costanzo Show appellarsi all’esistenza di un mostro ancora in libertà, saprebbe evocare il suo timbro di voce così particolare durante la telefonata di richiesta di soccorso. Ma soprattutto, forse, testimonierà come la percezione generale fosse quella di un evento capitale, rarissimo, sorprendente, impossibile. Era accaduto qualcosa di sconvolgente che non aveva un prima né un dopo, sospeso tra le altre notizie come un elemento estraneo incapace di trovare casa in un ordine di episodi simili, in una categoria di probabilità. Io all’epoca ero una studentessa in Psicologia, mi sarei laureata di lì a poco e trattengo il ricordo di come il sentimento del pubblico fosse quello per il quale sì, può capitare che i bambini purtroppo muoiano - ma se succede è a causa di un pazzo maniaco, di un rapitore serial killer, di un tragico incidente. A voler proprio guardare nelle case delle piccole vittime qualcuno arrivava a contemplare la possibilità che i figli morissero per mano dei padri ché in fondo si sa che i maschi sono fisicamente più aggressivi e violenti e che un uomo non ha l’istinto genitoriale materno. Teorie infondate, naturalmente, utili tuttavia a segnare una distanza tra noi e l’inconcepibile - ovvero che anche le madri uccidono, anzi: gli infanticidi sono reati in aumento e quelli agiti dalle mamme sono il 13% degli omicidi che avvengono in ambito famigliare. I numeri salgono, la violenza esonda, la salute mentale è appesa ad un filo sottilissimo: tutto sta precipitando verso il basso come nella prima scena de L’odio di Kassovitz, e proprio come nel film ci affidiamo al rituale magico di ripeterci “Fin qui tutto bene”, in attesa dell’inevitabile schianto finale che avrà quantomeno il vantaggio di non doverci più far pensare né preoccupare di niente. Me ne accorgo da un apparente dettaglio, che mi restituisce la nostra fatica di tenere insieme le cose complesse, che non ci restano in mano: tra i tragici fatti di cronaca di questi giorni le persone citano appunto i due casi cui alludevo anche io in apertura. Il primo, nel Nord Est: un bambino di nove anni cui la madre ha tagliato la gola. Il secondo, al Sud, dove un bambino di otto è stato soffocato nel sonno. Mi colpisce tuttavia che la storia recente non consideri i neonati uccisi e occultati da Chiara Petrolini nel giardino di casa, o il più recente episodio dei piccoli appena nati, uccisi e nascosti nell’armadio rinvenuti solo a seguito del cattivo odore dei cadaveri: mi colpisce come mi pare che un neonato morto a pochi minuti di vita per mano della sua mamma sembri un po’ meno un omicidio perché si era trascorsa insieme meno vita, perché i piccolissimi non se ne saranno accorti, perché appena nato sei meno persona che anni dopo - non so. Sembra quasi che si sia meno madri se lo si è da meno tempo, se si è più giovani e quindi ancora molto figlie, se non ci sono sui social foto di te e del tuo bambino scattate al parco. Non è così: nell’impermeabilità generale di una popolazione fragile che si ripara come può, sono mesi che parliamo intensamente di un’infanzia ingiuriata da una maternità che non regge e crolla sotto il peso di persone per le quali vivere risulta troppo difficile per promuovere la vita. Nella riunione di redazione durante la quale stabilire di cosa scriverti oggi, lettore scomodo, è poi uscito un altro elemento che non mi ha fatto tornare i conti del senso: i colleghi giornalisti mi chiedevano di approfondire le ragioni per le quali l’opinione pubblica tollera meno che sia una madre a macchiarsi di figlicidio. Mi ha colpita: a me pare al contrario che le reazioni riservate alle madri assassine siano decisamente più clementi e morbide di quelle rivolte ai padri. Come ti scrivevo, la nostra incapacità a sopportare che una mamma compia un gesto di tale gravità ha molto più a che vedere con i nostri meccanismi di difesa che rifiutano l’eventualità che accada, non con la condanna alla persona. Mi spiego meglio: quando il reo è un uomo, lo sdegno, le accuse e la rabbia si rivolgono ad personam all’assassino. All’uomo, più che al genitore. Al maschile, anziché al ruolo di accudimento. La condanna è netta e la traiettoria è chiara: mira dritta al responsabile, come se in fondo l’atto criminale fosse un predicato della virilità, qualcosa che filogeneticamente mettiamo dolorosamente in conto. Quando invece l’assassina è una madre, lo sconcerto è rivolto al gesto, non alla persona. Il nostro sistema psicologico pare non riuscire a integrare la dura realtà che sia possibile che una mamma non sia materna, che si allei con la morte anziché con la vita, che anche il femminile brandisca armi e le usi contro il frutto del suo seno, che una madre non corrisponda all’imago mariana e sia sadica, criminale, pericolosa. Così, le reazioni soffrono per la morte del bambino ma risparmiano il J’accuse alla madre , presumo allo scopo di non contaminare e non azzardarsi a sporcare l’immacolata concezione che abbiamo della maternità, che nella nostra cultura ipocritamente famigliacentrica resta immutatamente mistificata e inopportunamente idealizzata. Non è mica un vantaggio, infatti: oltre a farci trovare impreparati circa la possibilità di riconoscere i segnali di rischio , questo fasullo garantismo riservato al materno non risparmia invero il giudizio sulle madri, bensì le condanna ad una prescrittività comportamentale tale per cui se dai padri non sai mai fino in fondo cosa aspettarti, dalle madri invece si pretende un essere e un fare compensatori, impeccabili, sempre a fuoco. Eppure non conviene a nessuno la narrazione del fantomatico istinto materno, della madre custode eletta della cura, della mamma che, generatrice di vita, diventa testimonial naturale della vita stessa. Perché poi cosa facciamo con le depressioni post partum, puntualmente gravissime? Con la patologia psichiatrica, nemica pubblica numero uno di una esistenza dignitosa? Con il dolore soverchiante per una relazione finita oppure una relazione violenta, ché hai voglia a dire “Pensa a tuo figlio”, “Fallo per tuo figlio” quando per prima non sai pensare neanche a te e non sai fare proprio niente che non sia disperarti e chiederti come tirar sera. La prescrizione del comportamento materno che impone ad una madre di essere Marion Cunningham di Happy days non fanno che gravare sulle donne rischiando di farle sentire ancora più sbagliate, ancora più inadeguate, ancora meno meritevoli di essere le madri dei loro figli: spesso infatti è per questo che li uccidono, in preda ad una sorta di rituale magico di liberazione dalla condanna di avere una mamma così non adatta. E allora sapete che si fa? Gli adulti, cioè quelli che essendo cresciuti possono fare a meno di glorificare i genitori - ché quelli sono i bambini. Rendiamoci conto che il bisogno che la famiglia non sia messa in discussione e che la mamma sia intoccabile è il segno bisognoso di un’immaturità, che appiattisce il reale e si limita a collegamenti semplici tipici di pensieri piccoli. Ammettiamo che fare famiglia è faticoso e sfidante, che non basta avere un figlio per saperci avere a che fare e che soprattutto non basta essere una madre per fare un’ipoteca sulla felicità, anzi. Se non stai bene, un figlio rischierà di farti sentire ancora peggio: perché vorrà delle cose, avrà bisogno di altre, ti distrarrà da te. Che se non stai bene, ti perderai ancora più di vista. A volte, fino alle estreme conseguenze.

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Stefania Andreoli