Hiv, le cure funzionano ma "servono test su test"

Oltre un italiano su sette crede che basti baciare una persona con Hiv per contrarre il virus. E tanto basterebbe per giustificare la necessità di una Giornata mondiale contro l’Aids, che si celebra ogni 1° dicembre dal 1988. Ma i dati preoccupanti sono molti di più: l’11,8% degli italiani ritiene rischioso usare bagni in comune con persone con Hiv, il 16,6% sostiene che sia pericoloso il morso di una zanzara che ha già punto una persona sieropositiva e il 5% crede che respirare la stessa aria di un contagiato sia sufficiente per infettarsi . E tutto mentre in Italia le diagnosi, che spesso arrivano in ritardo, hanno ripreso ad aumentare dal 2020 a oggi. Un breve ripasso. L’Hiv è il virus, più precisamente un retrovirus, dell’immunodeficienza umana. L’Aids , al contrario, è lo stato clinico terminale dell’infezione causata dal virus. Una malattia che ancora uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno , nonostante la tendenza sia in costante calo per effetto delle terapie antiretrovirali. Il contagio avviene esclusivamente attraverso rapporti etero o omosessuali non protetti , per scambio di siringhe o per trasfusione di sangue contaminato. “Per decenni si è creduto che fosse una malattia legata alle persone omosessuali, ma non è mai stato così. I pregiudizi sono ancora molti e i comportamenti a rischio sono diffusi in tutta la popolazione. Nonostante i passi in avanti della terapia, serve stare attenti ai rapporti non protetti e fare i test senza timore”, commenta Stefano Vella, infettivologo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, che negli anni ’80 ha contribuito alla messa a punto della terapia antiretrovirale e nel 1988 è stato eletto presidente dell’International Aids Society. Professore, lei parla di tenere “alta la guardia”. L’Hiv, dunque, non è stato debellato? No, soprattutto nel Sud del mondo. Pensiamo all’Africa, dove ogni anno si contano un milione e mezzo di nuove infezioni. Per mettere i numeri in prospettiva, parliamo di più della metà popolazione di Roma. Quindi, il virus gira moltissimo soprattutto nei Paesi dove è scarso l’uso del preservativo e la terapia antiretrovirale non è arrivata capillarmente. Anche in Italia, però, i numeri descrivono un aumento delle diagnosi dal periodo pandemico. Perché? Il virus non è sparito, quindi gira anche in Italia. Ma i numeri parlano di un aumento delle diagnosi e non delle infezioni. Significa che non sappiamo quando queste persone abbiano contratto l’Hiv: potrebbero averlo fatto anche molti anni fa. In effetti, il 60% delle persone in Italia viene diagnosticato tardivamente. Quali sono i rischi? La diagnosi tardiva ha un impatto sulla trasmissione importante perché l’Aids è una malattia che si trasmette anche dopo tanti anni dall’infezione. Chi ha contratto il virus, se ha avuto rapporti non protetti, molto probabilmente ha infettato qualcuno senza saperlo. Ed è un danno grande per la sanità pubblica. Ma ovviamente preoccupano soprattutto i rischi per il sieropositivo. A volte le persone vengono diagnosticate perché hanno la polmonite, quando cioè sono ormai in uno stadio avanzato della malattia. I farmaci che abbiamo oggi a disposizione sono straordinari e riescono a “riprendere per i capelli” anche questi casi, ma intervenire prima significa abbattere i pericoli per la salute e per la trasmissione. La terapia antiretrovirale oggi assicura una buona qualità della vita anche alle persone con Hiv? Assolutamente sì. Immaginiamo di aver contratto il virus, averlo diagnosticato e aver subito iniziato la terapia. Ecco, queste persone hanno un’aspettativa di vita uguale a quella di tutti gli altri. E, sempre comunicandolo ai propri partner, possono anche godere di una vita sessuale regolare perché sono a carica zero. L’importante è che prendano i farmaci tutti i giorni. E ci sono effetti collaterali? Negli anni ’80 la terapia era molto più pesante. Ricordo che si dovevano prendere anche 28 compresse al giorno, ma oggi i farmaci hanno una qualità molto superiore: riescono ad abbattere la carica virale a zero, impedendo la trasmissione, e sono molto più tollerabili per il nostro corpo. Anche l’Hiv diventa qualcosa, pur sgradevole, con cui è possibile convivere. L’importante è agire il prima possibile. Insomma, tutto passa dalla diagnosi. Quand’è che dobbiamo fare il test? Quando abbiamo avuto rapporti a rischio con persone che non conosciamo. Su questo, pare che l’attenzione dei ragazzi sia maggiore rispetto a quella degli adulti: la maggior parte delle nuove diagnosi sono nella fascia tra i 40 e i 50 anni. Io ricordo che oggi fare il test è semplicissimo: si può fare anonimamente in ospedale, ma si trovano test anche in farmacia e funzionano benissimo. Va fatto perché salva la vita, anche se molti hanno paura. Come si spiega questa ritrosia? Nasce dalla stigmatizzazione delle persone con Hiv, che non ha senso. Ormai è una malattia come molte altre. Eppure, ci portiamo dietro pregiudizi sul fatto che chi contrae Hiv faccia una vita sregolata e sia da condannare. Non solo. Ci sono molti pregiudizi anche verso le persone straniere che sono una minoranza delle persone con Hiv in Italia: non sono loro a “portarcelo dall’Africa”. Alcuni pazienti hanno raccontato anche di discriminazioni in ambito sanitario, come la pratica di spostare le persone con Hiv agli ultimi posti delle liste per gli interventi chirurgici. Cosa c’è dietro? Senz’altro avere a che fare con il sangue richiede sempre delle precauzioni. Ma sono cautele che dobbiamo avere in ogni momento noi medici: non ha senso spostare gli interventi chirurgici per questo motivo. Anzi, un tempo pensavamo addirittura che per il chirurgo non sarebbe stato un vantaggio sapere di avere davanti un paziente con Hiv, perché gli sarebbe potuta tremare la mano . A che punto è adesso la ricerca per la lotta all’Aids? Ha fatto dei passi in avanti straordinari. Da un lato c’è la profilassi pre-esposizione, la Prep, che funziona alla grande per impedire preventivamente l’infezione. È uno strumento che attualmente l’Oms sta tentando di diffondere in Africa e l’industria sta negoziando i brevetti per i Paesi più poveri, perché per loro il preservativo è uno strumento occidentale difficile da digerire. In più, si stanno diffondendo anche dei farmaci “long acting” che permettono una copertura lunga anche un anno e mezzo senza che sia più necessaria la compressa quotidiana. D’altro canto, l’Oms continua nella lotta alle criminalizzazioni: in molte parti del mondo lo stigma verso omosessualità, tossicodipendenza e persone con Hiv è ancora troppo grande. E questo favorisce nuove infezioni. E il vaccino? Stiamo lavorando tanto al vaccino. Prima o poi arriverà. Ma ci concentriamo anche sulla cura, per tenere a bada il virus senza eradicarlo dall’organismo, farlo tacere per un po’. Fatto questo, mancherà solo il vaccino, ma per il momento non c’è. La cosa più importante, per adesso, è fare i test.