L'italiano che guida gli scienziati-007 europei a caccia di pandemie

Dott. Ciancio, in questi giorni in Italia c’è molta preoccupazione, specie negli allevamenti del nord, per la diffusione della peste suina. Di cosa si tratta? Si tratta di un virus influenzale che per molti aspetti è simile a quello che colpisce l'uomo. Si tratta di virus che si espandono molto facilmente fra la popolazione suina ma si trasmettono molto raramente all'uomo. Nei suini non danno una sintomatologia gravissima e questo è un motivo per cui, si diffondono anche più facilmente: non causano quasi mai la morte dell’animale e quindi possono passare inosservati. C’è un tema di sicurezza per l’uomo? La problematica in termini di salute umana è che i suini in realtà sono sensibili anche all'infezione da virus influenzale umano oltre che da virus influenzale aviario. Quindi quello che può succedere è che in un contesto di co-infezione nell'animale una parte del virus umano, trasmissibile quindi da persona a persona, si vada a combinare con una parte del virus suino creando un nuovo virus. Questo nuovo virus avrebbe caratteristiche immunologiche nuove che non lo renderebbero immediatamente riconoscibile dal sistema immunitario umano, causando così una situazione pandemica ed è per questo che c'è un'attenzione molto alta al concetto di prevenzione della infezione suina. Quali sono le contromisure possibili? Nel campo veterinario esistono dei vaccini che possono essere somministrati alla popolazione suina che anche se non sono al 100% efficaci. E poi si tratta anche di comprendere quali sono i meccanismi attraverso cui questi allevamenti vengono anche in contatto con altri allevamenti che possono essere infetti. Quindi si tratta di attuare una serie di regole per ridurre al minimo la possibilità che il virus entri nella popolazione suina. È una materia molto complessa che richiede un'organizzazione, un coordinamento un po’ a tutti i livelli, anche con il concetto di One Health in cui si deve tener conto di tutte le possibili situazioni di rischio in maniera coordinata e contemporanea. Nel concetto di One Health si cita spesso proprio l’eccessiva vicinanza dell’uomo o degli allevamenti alla specie selvatiche portatrici di virus che rischiano di fare il salto di specie portando alle zoonosi… Esattamente questo è quello che probabilmente è successo anche negli Stati Uniti, in cui per esempio il virus influenzale aviario H5N1 è entrato nella popolazione delle mucche da latte, causando delle grandi epidemie in questa popolazione bovina che poi è risultata in sporadiche infezioni anche negli esseri umani. Tutte queste situazioni vanno prevenute, con una maggiore attenzione a evitare la commistione di specie diverse, specialmente tra quelle selvatiche e quelle usate invece poi per allevamento a fini di consumo. Si tratta di un costante rischio ma sappiamo per esempio che finora il virus non ha acquisito delle mutazioni o delle caratteristiche che lo possono rendere facilmente trasmissibile tra una persona e l'altra. Esiste però un rischio pandemico che io dico essere imminente. Questo concetto di imminenza è fondamentale per chi si occupa di salute pubblica, perché bisogna essere sempre preparati ad affrontare una possibile pandemia. Il miglior modo di essere preparati e sapere che bisogna continuare a prepararsi Lei parla di un rischio imminente. Ma come si può evitare una nuova pandemia? Quando si parla di rischio pandemie c'è una sorta di prevenzione “primordiale” per andare ad affrontare i grossi temi che sono poi alla base di un aumentato rischio di pandemie: l'impatto del cambiamento climatico, i processi di deforestazione, le infrastrutture umane più vicine al mondo animale. Questa è una parte ovviamente molto difficile da realizzare perché prevede investimenti economici importanti e delle scelte politiche e culturali significative. Quello che si può fare più rapidamente è rafforzare la sorveglianza nel mondo animale attraverso un’integrazione dei processi di gestione del problema sanitario nella popolazione animale con quelli della popolazione umana. Ci sono paesi sviluppati come l'Italia, ma più in generale l'Unione europea, in cui la possibilità di testare le persone è abbastanza diffusa ma questo non ci garantisce che un virus venga rapidamente identificato, anche se emerge in Europa. E allora bisogna investire in sistemi di sorveglianza nuovi come la sorveglianza delle acque reflue, che è una cosa che non richiede grandi risorse ma che si sta dimostrando efficace se combinata con nuove tecnologie per un'analisi genetica più ampia di possibili patogeni. C’è poi la sorveglianza partecipativa che non si basa sul servizio sanitario, ma si basa sulle persone che comunicano la presenza, per esempio, di sintomi anomali magari in un periodo dell'anno in cui questo non è atteso. Questo sistema di allerta va molto sviluppato sia in Europa che al di fuori dell'Europa, perché parliamoci chiaro, gran parte delle pandemie nascono in contesti in cui la commistione tra il mondo animale e la vita quotidiana delle persone è più intensa e quindi è lì che bisogna cercare. Dottor Ciancio, lei è a capo della sorveglianza ECDC. Ci spiega come funziona la vostra struttura e quando si accende un allarme? Noi abbiamo innanzitutto un servizio di Epidemic Intelligence che lavora 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per fare uno screening di tutto le informazioni che emergono globalmente e quindi identifichiamo rapidamente se ci sono segnalazioni di epidemie nel mondo animale e anche i casi sporadici nell'uomo. Per esempio la trasmissione di un virus aviario-suino nell'uomo viene rapidamente investigato perché può essere l'inizio di una pandemia. Dopodiché lavoriamo insieme a tutti gli Stati dell'Unione europea per rafforzare i sistemi di sorveglianza. Ricordiamo che tutti gli Stati europei hanno approvato un pacchetto legislativo nuovo dopo la pandemia che prevede una valutazione del mio centro della preparazione pandemica di ogni Stato ogni tre anni. È un percorso che abbiamo iniziato nel 2024 e il primo ciclo si concluderà nel 2026 in cui tutti i paesi verranno valutati da noi. Cosa è cambiato con la pandemia? Molte cose sono cambiate in meglio dopo la pandemia nel senso che molti sistemi di sorveglianza sono stati rafforzati. Pensi al fatto che in quasi tutti i paesi dell'Unione avevamo dati giornalieri sul numero di casi, sull'ospedalizzazione e sulle morti. C’è stato anche un grande impatto e un cambiamento culturale nella popolazione che adesso sa come prevenire situazioni pandemiche. Ad esempio, usare la mascherina o evitare situazioni di super affollamento. C'è poi una grande infrastruttura che è stata sviluppata anche dal punto di vista di sorveglianza genetica. Il sequenziamento completo dei virus era una cosa che prima facevano solo pochi laboratori in Europa e adesso, anche grazie a dei fondi che abbiamo messo a disposizione, è molto più diffuso. Ci sono però anche delle situazioni di vulnerabilità che rimangono aperte. Per esempio come proteggere, in un contesto pandemico, le persone più vulnerabili senza avere un impatto sulla prevenzione e la cura di altre malattie come i tumori e le malattie cardiovascolari. Questo è un tipo di investimento su cui i paesi non sono ancora pronti perché richiede un progresso che passa non solo attraverso la digitalizzazione dei processi ma anche la riorganizzazione dei sistemi di servizio sanitario. Un altro aspetto che va sviluppato di più è la possibilità di studiare rapidamente nuovi virus quando questi emergono attraverso un'analisi della trasmissibilità, della virulenza con studi epidemiologici mirati. Infine c'è bisogno che sistemi epidemiologici forniscano i dati necessari alle persone che devono poi prendere decisioni in maniera tempestiva: i sistemi di sorveglianza non devono soltanto contare i numeri di casi e di morti ma far capire se i vaccini stanno funzionando, se sono sicuri, quali sono i fattori di rischio, come ridurre l'impatto nelle popolazioni a rischio. Tutto questo richiede grandi investimenti nella integrazione del servizio della salute pubblica. Su cosa si sta concentrando in questo periodo la vostra epidemic intelligence? Il focus in questo momento è su MPOX , perché se è vero che il rischio per l'Europa è molto basso e se è vero che non ci sarà mai una pandemia di MPOX simile a quelle che abbiamo avuto è una malattia che sta causando dei danni ingenti. Nella popolazione africana abbiamo un piccolo team del mio centro che lavora lì insieme al centro del controllo delle malattie africano e all'OMS e la situazione in Africa non è sotto controllo. Il rischio per l'Europa è basso perché si tratta di una malattia che non viene trasmessa facilmente da persona a persona, richiede un contatto, prolungato e sebbene sia stata selezionata col tempo una nuova variante, di cui molte caratteristiche non sono note, comunque sappiamo che richiede un contatto intenso per trasformarsi e causare una malattia. Poi ovviamente. sappiamo che in Europa esiste un rischio di importazione di dengue con la presenza di vettori che in Europa possono consentire la trasmissione autoctona del virus e questo sicuramente ci pone in allerta. E poi monitorizziamo l'epidemia di colera, l'epidemia di poliomielite, per esempio nella Striscia di Gaza. Monitorizziamo tutto quello che succede nel mondo per cercare di essere sempre pronti, a sollevare un allarme. Ma io come sorveglianza mi concentro anche sui problemi che invece sono concreti e reali in Europa. In questo momento non dimentichiamoci l'importanza dei dati di sorveglianza sulla resistenza agli antibiotici, le infezioni nosocomiali, non dimentichiamoci l'impatto delle malattie respiratorie che circolano in Europa, come il virus respiratorio sinciziale nei bambini oppure le malattie sessualmente trasmesse o le malattie prevenibili da vaccino, le grandi epidemie di pertosse, morbillo, queste sono situazioni reali di grande impatto sulla salute dei nostri cittadini su cui dobbiamo lavorare per far sì che i sistemi di prevenzione siano accessibili a tutti e che tutto venga fatto per ridurre l'impatto sui nostri cittadini.