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Alzheimer, la presenza di un cane può aiutare i malati: lo studio

Salute e Benessere
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A sottolinearlo, una ricerca multidisciplinare condotta da esperti e ricercatori dell'Università di Parma, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Animals”. Da ciò che è emerso dai test effettuati, infatti, la presenza degli animali può contribuire “al miglioramento del benessere sociale e globale” dei malati

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La presenza di un cane, al di là dalla taglia e dalla razza, può stimolare le persone che soffrono del morbo di Alzheimer, una patologia neurodegenerativa a decorso cronico e progressivo, ad interagire, riducendo così l’isolamento sociale e la solitudine. A sottolinearlo, un recente studio realizzato da un team di ricercatori coordinato da Fausto Quintavalla, docente del dipartimento di Scienze Medico-Veterinarie dell'Università di Parma e pubblicato sulla rivista scientifica “Animals”.

I dettagli dello studio

La ricerca, che ha coinvolto anche esperti del dipartimento di Medicina e Chirurgia, di psicologia e medici veterinari esperti in medicina comportamentale e approccio cognitivo zooantropologico, ha coinvolto 30 pazienti con malattia di Alzheimer e 3 cani “coterapeuti”. Come si legge in un comunicato diffuso dall’Università di Parma, nel giro di 12 settimane tutti i pazienti hanno partecipato ad un totale di 24 sessioni di interventi assistiti da animali, monitorati attraverso una serie di test di valutazione. Un secondo gruppo di pazienti, composto da 10 persone con la medesima malattia, ha effettuato gli stessi test di valutazione ma senza avere la possibilità di entrare in contatto con i cani. In base a quanto rilevato dai ricercatori, “le persone che hanno avuto la possibilità di giovarsi della presenza del cane hanno ottenuto un miglioramento complessivo del proprio stato di benessere percepito, anche sul piano cognitivo e mnemonico”. Secondo gli esperti, dunque, la presenza degli animali può contribuire “al miglioramento del benessere sociale e globale”. Tra l’altro, è stato rilevato come circa due mesi dopo la fine delle sessioni con gli animali, i benefici della loro presenza tendono a diminuire in maniera progressiva, suggerendo così la necessità di “interventi prolungati nel tempo e correlati alla presenza dell’animale in modo costante nella routine dei pazienti”.

L’importanza delle “terapie integrative”

La malattia di Alzheimer (AD), spiega ancora la nota dell’ateneo parmigiano, rappresenta la causa più comune di demenza nell'essere umano.  Nel nostro Paese, nel corso del 2020, le stime indicano come siano emersi oltre 500.000 nuovi casi di demenza. La malattia, dopo un iniziale decadimento cognitivo lieve, progredisce aggravando i sintomi e coinvolgendo nella gestione dei pazienti anche i loro famigliari, definiti “caregiver”. Oltre a influenzare la memoria e altre funzioni cognitive, tra cui il pensiero, le abilità linguistiche o l’orientamento, si possono verificare anche sintomi comportamentali e psicologici, tra cui apatia, agitazione, aggressività, ansia o insonnia. In aggiunta alle terapie farmacologiche, esistono le cosiddette “terapie integrative”, tra cui proprio gli interventi assistiti da animali (AAI) che svolgono un ruolo importante. In questo senso, nella letteratura scientifica, sono disponibili diversi casi di studio che coinvolgono sia cani reali che animali domestici robotici.

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