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Coronavirus, dimostrato un legame con l’inquinamento atmosferico

Salute e Benessere

I ricercatori della Sima, la Società italiana di Medicina Ambientale, sono riusciti a isolare tracce di Rna virale in campioni provenienti dai filtri di raccolta del particolato atmosferico prelevati nella provincia di Bergamo durante l’ultima serie di picchi di sforamento di PM10 avvenuta a fine febbraio

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Esiste un legame tra la diffusione del coronavirus Sars-CoV-2 (segui la DIRETTA di Sky TG24) e l’inquinamento atmosferico in Pianura Padana. Lo dimostra uno studio condotto dalla Sima, la Società italiana di Medicina Ambientale, che dopo sette mesi di peer-review da parte della comunità scientifica internazionale è stato pubblicato sulla rivista British Medical Journal. “Si tratta della quarta pubblicazione che abbiamo prodotto dal mese di marzo, quando ci siamo sentiti in dovere di avvertire i decisori politici, nel pieno dell’emergenza Covid-19, che la distanza di sicurezza di due metri (ridotta a un metro per gli ambienti indoor dal CTS governativo) non fosse sufficiente a garantire la sicurezza e che era necessario obbligare all’uso della mascherina tutti i cittadini in ogni luogo aperto al pubblico in un momento in cui si stava ancora discutendo dell’efficacia dei dispositivi di protezione individuale”, spiega Alessandro Miani, il presidente della Sima.

Lo smog a Milano - ©Ansa

I picchi di sforamento di PM10

Leonardo Setti, professore di Biochimica Industriale all’Alma Mater di Bologna e membro del comitato scientifico di Sima, spiega che gli esperti della Società italiana di Medicina Ambientale hanno ottenuto la prova definitiva dell’interazione tra particolato atmosferico e virus quando sono riusciti a isolare tracce di Rna virale in campioni provenienti dai filtri di raccolta del particolato atmosferico prelevati nella provincia di Bergamo durante l’ultima serie di picchi di sforamento di PM10 avvenuta a fine febbraio. 

 

Le caratteristiche della Pianura Padana in inverno

“Durante l’inverno, in Pianura Padana, è possibile riscontrare anche per diversi giorni consecutivi più di 150.000 particelle per centimetro cubo, con un impatto mortale sulla salute, anche in termini di mortalità evitabile, ormai acclarato dai rapporti annuali dell’Agenzia Europea per l’Ambiente”, precisa Gianluigi De Gennaro, docente di Chimica dell’Ambiente all’Università di Bari. L’esperto aggiunge che in inverno la Pianura Padana diventa assimilabile a un ambiente al chiuso con il soffitto di qualche decina di metri, dove in presenza di una grande circolazione virale le condizioni di stabilità atmosferica, il tasso di umidità e la scarsa ventilazione hanno favorito la circolazione del coronavirus.

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Lo svolgimento dello studio

Il professor Prisco Piscitelli, epidemiologo e vicepresidente della Sima, spiega che nel corso dello studio è stato analizzato il numero di sforamenti per il PM10 sopra i 50 g/m3 per tutte le Provincie italiane, prendendo in considerazione il numero di centraline installate, la numerosità e la densità della popolazione, nonché il numero medio di pendolari giornalieri e turisti. “Il periodo esaminato andava dal 9 al 29 febbraio, in modo da tener conto dei 14 giorni di massima incubazione del virus e quindi degli effetti prodotti nelle prime due settimane di ondata epidemica in Italia (24 febbraio-13 marzo). Su un totale di 41 Provincie del Nord Italia, ben 39 si collocavano nella categoria di massima frequenza di sforamenti, mente 62 Provincie meridionali su 66 si situavano ai livelli più bassi di inquinamento atmosferico. L’andamento degli sforamenti di PM 2.5 era pressoché sovrapponibile. L’effetto osservato era indipendente sia dalla numerosità che dalla densità di popolazione. Nel complesso, gli sforamenti di PM10 si rivelavano un significativo fattore predittivo di infezione da Covid-19, potendo spiegare la diversa velocità di propagazione del virus nelle 110 Provincie italiane”, conclude Piscitelli.

 

L’iperdiffusione del coronavirus

Leonardo Setti sottolinea che quasi 200 lavori scientifici, tra cui uno studio firmato dal premio Nobel per la chimica Mario J. Molina, hanno citato la ricerca condotta dalla Sima. Ognuno di questi lavori ha confermato le ipotesi formulate dagli esperti italiani, mettendo in evidenza fenomeni di iperdiffusione (“superspread”) del coronavirus in vari Paesi del mondo. Anche partendo da ipotesi diverse, il fenomeno osservato dalla Sima è stato riscontrato da molti altri team di ricerca in tutto il globo. Setti aggiunge che le accelerazioni della diffusione del virus si osservano quando le sorgenti naturali o le attività antropiche, legate al traffico e al riscaldamento domestico, così come le condizioni atmosferiche che si riscontrano tra gennaio e febbraio, portano a sforamenti ripetuti delle PM2,5 e PM10. In queste condizioni, gli indici R0 passano da 2 a oltre 4 se gli sforamenti superano i 3-4 giorni consecutivi.

Una ripartenza verde

“Nel ribadire che l’inquinamento atmosferico si rivela ancora una volta fonte di gravi danni alla salute, vogliamo tuttavia sottolineare che le evidenze prodotte da Sima non devono spaventare gli attori del mondo del lavoro e delle imprese, ma stimolarli a una ripartenza verde che coniughi il giusto progresso economico con la sostenibilità ambientale necessaria alla tutela della salute umana”, chiarisce Setti. “L’abbandono dei combustibili fossili con una rapida transizione energetica ed ecologica è prospettiva ormai inevitabile per evitare il rapido collasso degli ecosistemi dalle conseguenze imprevedibili e offrirà nuove opportunità economiche e condizioni di lavoro in grado di servirsi al meglio delle nuove tecnologie”, aggiunge Miani. “Anche alla luce di queste evidenze, il Recovery Fund deve essere occasione ineludibile per investire non più su azioni accessorie, ma soprattutto su progettualità concrete che possano ridurre nel breve/medio periodo l’impatto dell’uomo sull’ambiente”, conclude l’esperto.

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