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Raid in un bar di Roma, 3 condanne. Riconosciuta l'aggravante mafiosa

Lazio

Tre le condanne inflitte per mafia a membri del clan Di Silvio per il raid in un bar avvenuto il primo aprile scorso, in cui erano stati aggrediti una disabile e il titolare

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Tre condanne per mafia inflitte dal Gup Maria Paola Tomaselli ad altrettanti appartenenti al clan Di Silvio, imputati nel processo per il raid in un bar avvenuto il primo aprile scorso. Il Comune non è stato ammesso come parte civile (tardiva la richiesta di costituzione) nel procedimento che si è svolto con rito abbreviato. Il Gup ha accolto le richieste del Pm Giovanni Musarò condannando a 4 anni e 10 mesi Alfredo Di Silvio, a 4 anni e 8 mesi il fratello Vincenzo e a 3 anni e 2 mesi il nonno dei due, Enrico. I primi due erano accusati di lesioni e violenza privata; il nonno invece di minacce. A tutti è stata riconosciutal’aggravante del metodo mafioso. Antonio Casamonica, la quarta persona coinvolta nel raid in un bar ai danni del titolare e di una giovane disabile, ha scelto di essere processato con rito ordinario.

L'aggressione

Il pestaggio era avvenuto nel giorno di Pasqua in via Salvatore Barzilai alla Romanina. Due uomini, appena entrati nel Roxy bar, avevano preteso di essere serviti subito. Quando questo non era successo, avevano aggredito prima una giovane disabile, che li aveva ripresi per il loro comportamento, e poi il barista, titolare del locale, un 39enne di origine romena. Secondo la ricostruzione della Procura, Casamonica, Alfredo e Vincenzo furono gli autori materiali del pestaggio, mentre il nonno aveva cercato di intimidire le vittime a denuncia avvenuta, prima offendo loro denaro e poi con azioni minatorie.

L'aggravante mafiosa

"Appare evidente", aveva scritto il Gip a completamento dell'ordinanza di arresto, "che i Casamonica e i Di Silvio siano assurti a padroni del territorio e che l'aggressione della donna prima e la spedizione punitiva nei confronti del barista, con annessa devastazione del locale dopo, abbiano costituito una rivendicazione di tali diritti". "In altri termini", aveva spiegato il magistrato nel provvedimento, "si è trattato di un modo per riaffermare il loro potere, anche per disincentivare eventuali future reazioni".