La mediazione di Meloni: a Bruxelles passa la linea italiana

Qualcuno azzarda un’immagine da scacco matto. Di sicuro il Consiglio europeo più difficile e complesso dell’anno per Giorgia Meloni si chiude esattamente come lei voleva. Con una doppia vittoria sui temi , la linea italiana che prevale, un asse inedito con Francia e Belgio che permette di by passare tutte le resistenze, mettendo all’angolo la Germania. Niente uso degli asset russi, nessun disallineamento con Trump e gli Stati Uniti, e alla fine anche il Mercosur viene rinviato. Sul finanziamento all’Ucraina, il cuore di questo vertice, sono state 15 ore di negoziato durissimo e l’Italia le ha passate tenendo le proprie carte coperte, armandosi di pazienza e aspettando di fatto che la trattativa sugli asset non decollasse prima di tirare fuori il piano B. Significativo ciò che accade in sala stampa al Justus Lipsius, a lavori in corso. È ora di cena quando gli spin doctor del presidente del Consiglio Costa e di Ursula von der Leyen fanno trapelare ai giornalisti che non ci sono alternative all’uso delle risorse di Mosca, già bloccate a tempo indeterminato. Stesso discorso era stato fatto prima dal polacco Tusk e dal cancelliere tedesco Merz. A quel punto sembra davvero che non ci siano margini di manovra. Passa un’ora e con gli sherpa italiani arriva il Coup de théâtre. Ciò che restituiscono i diplomatici di casa nostra è che l’alternativa esiste ma che soprattutto le garanzie – sacrosante – richieste dal Belgio sono costosissime. Un modo elegante per dire che non sarebbero state sostenibili. Ecco allora che appare chiaro che non c’è solo l avversità del Belgio – dove gli asset di Mosca sono depositati – da superare. Ma anche l’Italia è contraria. Il nostro Paese spinge per un prestito, per fare debito comune, ciò che i frugali e la Germania non vogliono. C’è poi un altro problema. Per andare in questa direzione serve un voto all’unanimità e Orbán ha sempre detto no. Passano altre 6 ore. Gli sforzi diplomatici si fanno intensi. Meloni parla con tutti i leader, ungherese in testa. Un giro di interlocuzioni che alla fine tira fuori ciò che non ti aspetti. Viktor Orbán è a bordo. L’europeo più antieuropeista d’Europa è della partita. Non è una conversione politica, ma una normalizzazione pragmatica: la soluzione che prende forma non viola tabù giuridici e consente anche a Budapest di restare dentro il perimetro, contribuendo a ricomporre una maggioranza che fino a poche ore prima sembrava impossibile. A quel punto resta da sola la Germania, che non ha la forza di bloccare tutto. Un isolamento che non è solo tattico ma riflette una fase di transizione interna di Berlino, oggi meno capace di esercitare una leadership automatica sui dossier strategici europei. E nemmeno i Paesi del Nord Europa, i più preoccupati da Putin e i più interessati a far sì che a Zelensky arrivino le risorse per difendersi, hanno più la forza per opporsi. Un fronte che nei comunicati appare compatto, ma che nei negoziati mostra maggiore cautela verso mosse potenzialmente destabilizzanti per l’architettura finanziaria dell’Unione. Il dado è tratto. Mancano solo pochi dettagli tecnici. Per l’Ucraina arrivano 90 miliardi di aiuti. Una decisione che riflette anche una scelta di tempo: l’Unione evita forzature irreversibili in una fase di transizione geopolitica. Sullo sfondo, mai ufficializzati, pesano anche i contatti con Washington e l’esigenza condivisa di non irrigidire il negoziato sulla pace. Risultato ottenuto, non scontentando neanche la Russia ed evitando di dare l’alibi a Putin per bloccare i colloqui in corso con americani ed ucraini. Avrebbe avuto gioco facile nel sostenere che l’Europa aveva fatto alla Russia ciò che nessuno aveva mai fatto neppure durante la Seconda guerra mondiale, ossia impossessarsi di beni di un altro Stato. Giorgia Meloni è soddisfatta. Decide di rientrare subito a Roma, non prima però di dire che questa volta ha vinto il buon senso. Palazzo Chigi aveva sempre sostenuto che la strada degli asset era irta di ostacoli, priva di una cornice giuridica che permettesse di operare in salute legale e finanziaria. In più si sarebbe mandata all’aria Euroclear, l’istituzione che è un po’ il notaio dei mercati finanziari internazionali, caricando l’intera area euro di una reputazione discutibile. Non basta una guerra per cancellare le regole. In tutto questo spicca il silenzio – sospetto – della Francia, che non si è esposta più di tanto. Macron e Meloni hanno fatto asse sul Mercosur, facendolo rinviare a poche ore dalla firma finale. Lo stesso presidente francese ha detto di aver sentito Meloni più volte negli ultimi giorni. La sensazione è che con l’Italia - nella partita sugli asset - ci fosse anche la Francia, concordando però che questa volta fosse Roma ad esporsi. Macron e Meloni d’altronde ci hanno già abituato a questo in altre occasioni. Non si piacciono, ma si rispettano. E nel momento del bisogno non hanno paura a mettersi in cordata. Specialmente questa volta, in un Consiglio che segna anche un riequilibrio tra istituzioni, con la Commissione più esposta politicamente e i governi tornati al centro della mediazione, riducendone automatismi e scorciatoie. Un misto tra pragmatismo e opportunismo che questa volta ha fatto bene all’Europa.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

La mediazione di Meloni: a Bruxelles passa la linea italiana

Andrea Bonini