Meloni a Ue: "No a piani alternativi, lavoriamo insieme a Trump"

Giorgia Meloni arriva al G20 di Johannesburg con una certezza: l’unico perimetro negoziale oggi sul tavolo è quello costruito dagli Stati Uniti. E l’Italia — più di chiunque altro — sta facendo di tutto perché in Europa non germoglino piani paralleli proprio adesso, mentre Kiev è chiamata alla decisione più delicata dall’inizio della guerra. Un piano che, per la prima volta da tre anni, introduce garanzie di sicurezza americane esplicite. Washington si dice pronta a intervenire in caso di nuove aggressioni, un impegno che fino a poche settimane fa veniva considerato improbabile. Un passaggio che spiazza anche molte capitali europee, abituate a una Casa Bianca più prudente. Il segnale cambia l’equilibrio generale: non si tratta più soltanto di discutere un cessate il fuoco, ma un passaggio che potrebbe riscrivere anche l’architettura della sicurezza del vecchio continente. La dichiarazione comune firmata dai leader europei in Sudafrica serve a guadagnare tempo e a mostrare compattezza. È un testo che ribadisce principi consolidati — confini intangibili, difesa ucraina, unanimità su Nato e Ue — ma resta sospeso in attesa della mossa di Trump, che chiede una risposta rapida e non sembra disposto a gestire lunghi passaggi procedurali. È una distanza di approccio che Meloni avverte più di altri: con il presidente tornato al centro del dossier, l’Europa non può permettersi pause o divagazioni. Il confronto con Merz, Costa e Von der Leyen conferma quanto le velocità europee siano disallineate. Meloni spinge per un uso realistico del piano americano: modificarlo dove serve, ma non archiviarlo in partenza. È un messaggio rivolto soprattutto a chi pensa di elaborare una proposta autonoma “europea”, senza però chiarire come garantire le stesse tutele promesse dagli Stati Uniti. Per Roma sarebbe un salto nel vuoto, con il rischio di perdere allo stesso tempo tanto la protezione americana, quanto il rapporto tra Washington. Il vero nodo resta la freeze line, la linea di congelamento del fronte che potrebbe segnare la fase iniziale del cessate il fuoco. Così come è pensato ora, il piano americano imporrebbe un prezzo da pagare troppo alto per Zelensky. Anche l’Europa, per tre anni rigorosamente ancorata al principio dell’integrità territoriale, si ritroverebbe a dover spiegare ai propri cittadini un cambio di linea. Eppure, anche su questo punto, Meloni insiste a non chiudere la porta. Il pragmatismo che invoca a Johannesburg nasce da un calcolo politico semplice: piaccia o meno, è Trump ad avere in mano la leva decisiva, quella che può aprire o far saltare il percorso negoziale. E l’Italia ritiene che questa finestra non vada sprecata, sapendo che un fallimento riporterebbe il conflitto in una fase imprevedibile. Anche dentro il governo italiano emergono accenti diversi. Tajani insiste perché Bruxelles resti pienamente coinvolta, evitando che l’Unione resti spettatrice di un negoziato in cui pagherebbe comunque le conseguenze. Salvini guarda invece alla prospettiva di un accordo come al modo per ridurre progressivamente l’invio di armi. Meloni tenta di confermare l’Italia nel ruolo di ponte tra le due sponde dell'oceano. È una scelta politica, ma anche una scommessa personale: se l’Europa riuscirà a recuperare un dialogo con Trump, Roma potrà rivendicare di aver lavorato per evitare che questa finestra diplomatica, forse quella decisiva, in un senso o nell'altro, fosse compromessa sul nascere.

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Andrea Bonini