Meloni, l’Italia e la difesa impossibile: quando destra e sinistra si somigliano

C’è una parola che in Italia continua a far paura: riarmo. Non per ciò che evoca, ma per ciò che impone. Costringe la politica a dire chi siamo, da che parte stiamo e quanto siamo disposti a pagare per contare nel mondo. È il grande rimosso del dibattito pubblico: necessario ma impopolare, inevitabile ma sempre rinviato. Il Consiglio europeo di questa settimana ha mostrato che neppure l’Europa ha ancora trovato una linea comune quando si affrontano temi di questo tipo. Non c’è unanimità, né certezza giuridica, sull’uso degli asset russi congelati. Non c’è una prospettiva reale per un progetto a breve termine di difesa comune. Non c’è una capacità reale di garantire sostegno finanziario a Kiev, ne’ direttamente, né indirettamente come sollecitato dagli Stati Uniti. Ma lo stallo di Bruxelles, con la palla continuamente rilanciata in tribuna, è anche lo specchio di Roma. Anche qui la paralisi non nasce solo dall’assenza di strumenti, ma dalla paura di usarli. Una maggioranza - unita ma divisa -che non decide Giorgia Meloni parla spesso di “sicurezza come investimento”, ma la sua coalizione non crede fino in fondo a quella frase. Fratelli d’Italia difende la linea atlantista, il bisogno di strutturarsi militarmente, ma la Lega si smarca: teme che nuovi fondi per la difesa si traducano in tagli altrove e in tensioni sociali. Salvini guarda più ai cantieri che alle caserme. Come se i primi non dipendessero anche dai secondi, ossia da un Paese stabile e sicuro che può progettare un proprio piano di sviluppo. Forza Italia, europeista nei toni, si tiene ai margini: Tajani sostiene Meloni, ma senza fare della difesa una bandiera politica. Il risultato è un governo che si muove in equilibrio instabile, che promette, si impegna, ma rimanda. Senza sapere se riuscirà a mantenere le promesse o rispettare gli impegni presi. Meloni, l'Europa e Trump C’è un triangolo che definisce la posizione italiana sulla difesa: Washington, Bruxelles e Palazzo Chigi. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato la grammatica della sicurezza occidentale. Gli Stati Uniti chiedono agli europei di spendere di più ma si riservano il diritto di disimpegnarsi quando conviene. L’Europa, invece, parla di autonomia strategica ma non ha ancora deciso se vuole davvero emanciparsi dall’ombrello americano. In mezzo c’è Giorgia Meloni: legata a Trump da un rapporto politico diretto e da un’affinità culturale, ma vincolata all’Europa per sopravvivenza economica e diplomatica. Meloni prova a trasformare questa ambiguità in una risorsa: si presenta a Bruxelles come interprete della nuova America e a Washington come garante della lealtà europea. Un doppio linguaggio che le ha consentito finora di restare centrale, ma che sul terreno della difesa mostra tutti i suoi limiti. Perché la premier non può sposare fino in fondo né la linea americana — che vorrebbe un’Europa più militante — né quella europea, che parla di autonomia ma non la esercita. Così l’Italia finisce per essere coerente con tutti e strategica per nessuno. Un’opposizione allo specchio Dall’altra parte non va meglio. Il Partito Democratico parla di “difesa comune europea” con toni astratti, senza mai indicare cosa significhi in termini di scelte. Il Movimento 5 Stelle respinge l’aumento delle spese militari, ma dimentica che gran parte dell’innovazione tecnologica passa proprio da quei programmi. Nessuno osa dirlo apertamente: la difesa costa, ma l’assenza di difesa costa di più. Così maggioranza e opposizione finiscono per assomigliarsi. Entrambe temono di pagare un prezzo politico per una decisione che non porta voti immediati. Entrambe preferiscono una prudenza che, col tempo, diventa immobilismo. Un Paese che evita la realtà L’Italia è un Paese che discute di sovranità ma delega la sicurezza, che invoca autonomia ma aspetta che siano gli altri a garantirla. Da trent’anni vive nella convinzione che basti dichiararsi “europea” per contare in Europa. Ma quando arriva il momento di tradurre i principi in risorse si blocca tutto. Il riarmo — parola che nessuno vuole pronunciare — non significa militarizzazione, ma capacità di scelta. È la misura di una classe politica che non riesce a guardare oltre la prossima legge di bilancio. La prudenza, in sé, non è un difetto. Ma quando diventa alibi, si trasforma in resa. Meloni spera che l’Europa, prima o poi, trovi un quadro comune che le permetta di guadagnare tempo. L’opposizione spera che l’impopolarità del tema renda tutto rinviabile. In fondo, maggioranza e opposizione vogliono la stessa cosa: non dover decidere. Nel frattempo, il mondo intorno cambia. Gli Stati Uniti guardano altrove, la Russia tiene il punto, la Cina investe nella forza come linguaggio politico. L’Europa discute, e l’Italia la segue. Ogni mese perso in calcoli interni è un pezzo di sovranità che scivola via. Non è questione di quante armi comprare, ma di quale ruolo si voglia giocare. La politica italiana è prigioniera di un riflesso pavloviano: la paura del costo immediato, l’incapacità di pensare a lungo termine. Ma la difesa, come la credibilità, è una costruzione lenta: non si improvvisa quando scoppia la crisi. E allora il vero rischio non è spendere troppo, ma arrivare tardi. Perché nella geografia del potere, chi non sceglie non resta neutrale: semplicemente, sparisce.

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Andrea Bonini