Meloni e i suoi primi mille giorni

“Mille giorni di te e di me”, cantava Claudio Baglioni, tra slanci e frenate che sembrano raccontare anche i primi mille giorni del governo Meloni. Un quadro dalle tinte forti e dalle mille sfumature: la premier che resta la protagonista assoluta, l’assenza di un’opposizione capace di rubarle la scena, Il governo che entra di diritto tra i più longevi della Repubblica. Un traguardo tagliato senza scossoni, ma anche senza picchi di novità, facendo della prudenza un totem, in un contesto globale solcato da crisi senza precedenti, tra guerre, tensioni e mutamenti imprevedibili. Motivo per cui molti degli slogan iniziali sono rimasti tali. Meloni ha scelto la via della responsabilità, tenendo la barra dritta per evitare rischi. In primis sull’economia. Il governo ha cercato di rassicurare i mercati, evitando ogni turbolenza che potesse creare instabilità. Le agenzie di rating lo hanno riconosciuto. Ma il prezzo di questa cautela è stato alto: i margini di manovra si sono ristretti e l’ambizione politica si è dovuta contrarre. C’è stato il taglio del cuneo fiscale, l’espansione dei mercati esteri, la cancellazione del Reddito di cittadinanza. Misure concrete, ma senza quell’impatto trasformativo che ci si sarebbe aspettati all’inizio della legislatura. Sui migranti, tema con cui si è realizzata la scalata di Palazzo Chigi, si è puntato tutto sul “modello Albania”. Le risorse impiegate sono state ingenti, ma il progetto deve ancora decollare sul serio. Qualcosa si è mosso però a Bruxelles, dove oggi si parla di rimpatri e coinvolgimento di paesi terzi. Il merito non è solo italiano, ma va riconosciuto a Meloni il fatto di aver insistito su questo cambio di passo prima di tutti gli altri. Con l’Europa, il rapporto è stato all’insegna della continuità. Nessun strappo. L’intesa con Ursula Von Der Leyen resta solida, e il ruolo dell’Italia è stato valorizzato anche dagli altri partner. Anche il gelo con Macron si è sciolto: la posta in gioco – per entrambi – si è rivelata troppo alta per lasciare spazio a polemiche di bandiera. Poi ci sono le crisi internazionali. La guerra in Ucraina, la situazione in Medio Oriente, le pressioni americane sulla difesa e i dazi. Tutti dossier che pesano. L’imprevedibilità di Trump può complicare il quadro, soprattutto per Meloni: un mancato accordo sui dazi rischia di costarle caro anche sul piano interno, dopo la candidatura a fare da ponte tra Europa ed USA e considerata la forte esposizione dell’economia italiana all’export a stelle e strisce. All’estero, Meloni si è mossa con pragmatismo, mostrando una certa disinvoltura nel cambiare tono rispetto ai comizi di piazza. Vale per il Piano Mattei per l’Africa, così come per l’attenzione verso nuove relazioni strategiche fuori dal perimetro europeo, come nell’Indo-Pacifico. Meno sovranista di quanto si immaginasse all’inizio, più disponibile a cercare sponde trasversali. In Italia, però, l’effetto è stato meno visibile. Le riforme restano abbozzate e relegate ad una dimensiona di “cantiere”. Unica eccezione quella della giustizia che con la separazione delle carriere ha trovato una propria corsia preferenziale. Con gli alleati la coabitazione regge, ma non è priva di tensioni. Salvini continua a cercare visibilità, Tajani reclama spazi. Le prossime regionali saranno un banco di prova con Fratelli d’Italia che punta a espandersi nei feudi storici della Lega. Le voci di un possibile salto in politica di Pier Silvio Berlusconi mettono la maggioranza sub Iudice a ciò che succederà. Sul tavolo restano molti nodi: salari bassi, costo della vita, crescita lenta. Problemi noti, che nessuno è riuscito davvero a risolvere nel corso dell’ultimo decennio. Sul piano politico, Meloni si gioca una partita delicata: restare fedele alla propria immagine mentre governa in modo sempre più moderato. Le difficoltà delle opposizioni restano una garanzia per la maggioranza. Ed è questo forse l’elemento più anomalo di questa fase. I sondaggi mostrano un quadro misto: cresce l’insofferenza verso le politiche di governo, ma la fiducia nella premier resta alta. Meloni non entusiasma più come all’inizio, ma mantiene il controllo. È come se l’elettorato riconoscesse alcuni limiti nella sua azione, ma non vedesse alcuna alternativa possibile. Fin qui, Meloni ha fatto da garante dell’equilibrio. Ma più il tempo passa, più tutto questo potrebbe non bastare. La sfida che si apre è più complicata. La legge di bilancio, le spese per la difesa, il PNRR in scadenza con tutte le fisiologiche difficolta del sistema Italia a rispettare le scadenze. La manovra in arrivo chiederà scelte nette: tra rigore e redistribuzione, tra vincoli esterni e richieste interne. E non ci sarà spazio per accontentare tutti. Dopo mille giorni, Meloni può dire di aver tenuto. Ma il potere rischia di non bastare ed esaurirsi se non canalizzato verso una visione più precisa di paese. Governare non è solo amministrare, ma immaginare dove voler arrivare. Ecco allora che la vera sfida non è su oggi, ma su domani. Dove il paese sarà posizionato una volta finite le crisi e le emergenze. Se sarà al passo con i tempi o relegato all’eterno ruolo di “vecchio carrozzone”.

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