Meloni e la febbre d’estate nella maggioranza

Il termometro di Palazzo Chigi non segna solo i 40 gradi che arroventano Roma. C’è un’altra temperatura, quella politica, che Giorgia Meloni percepisce salire ogni volta che uno dei suoi alleati alza la voce o prende una strada diversa da quella concordata. Un caldo interno, fatto di insofferenze, fughe in avanti e protagonismi che, a differenza dell’afa, non passa con un temporale. Tre anni di governo, decine di richiami, i rituali pranzi del lunedì: eppure, l’ambizione personale e la competizione interna – tanto nella Lega quanto in Forza Italia – troppo spesso prevalgono sull’unità d’azione. È un copione noto, un riflesso quasi genetico della politica italiana, dove anche il centrosinistra si distingue per risse e implosioni. Ma per chi è al governo, e soprattutto per chi ne guida l’agenda, l’improvvisazione non è più un’opzione. L’ultimo inciampo è firmato Forza Italia. Il 3 luglio, a sorpresa, il portavoce azzurro Raffaele Nevi annuncia la disponibilità del partito a votare lo Ius Scholae insieme all’opposizione. Una mossa slegata da qualunque strategia di maggioranza, capace di rianimare un tema politicamente esausto e bocciato da un referendum trasversale. Il risultato è il caos: un assist all’opposizione, l’immagine imbarazzante del ministro degli Esteri Tajani che ride nervosamente in aula, sbeffeggiato da Renzi, e un nuovo malumore da gestire per la presidente del Consiglio. Il disappunto è evidente, perché certe uscite – più che errori – sono segnali. E Meloni li legge come tali. Dietro a ogni dichiarazione fuori spartito, c’è la volontà di alzare il prezzo nella dinamica interna della coalizione. C’è la tentazione, sempre viva, di tornare a parlare al proprio elettorato di riferimento anche a costo di indebolire la narrazione unitaria del governo. Un atteggiamento che infastidisce la premier, ma che soprattutto le fa perdere tempo e credibilità. Non è solo Forza Italia. Matteo Salvini, da tempo, gioca una partita tutta sua. La flat tax, i condoni, le rottamazioni fiscali, la battaglia sull’Irpef, il ponte sullo Stretto come ossessione ricorrente: sono capitoli di un’agenda parallela che spesso costringe Palazzo Chigi a rettifiche, mediazioni, compromessi. Temi non presenti nel programma comune, eppure agitati come vessilli identitari nella battaglia per la visibilità. La sensazione, in certi giorni, è che Meloni governi con due opposizioni interne, più che con due alleati. Salvini alterna il ruolo istituzionale di vicepremier alla postura da eterno leader di partito, in perenne campagna. Conosciuto, prevedibile, ma anche scomodo. Perché la premier sa – e lo sanno anche loro – che se oggi il centrodestra è al governo è per il suo consenso personale. Se fossero stati Salvini o Tajani a guidare la coalizione, probabilmente non saremmo a questo punto. Questa è la realtà. Eppure, c’è chi continua a ignorarla. A breve inizierà la scrittura della legge di bilancio, con una cornice complessa: le tensioni internazionali, il peso crescente della spesa militare, l’incognita dei dazi con gli Stati Uniti. Ci sarà poco spazio per bonus identitari o micro-finanziamenti elettorali. Ogni euro dovrà avere un senso. Ogni scelta dovrà reggere alla prova della coerenza. Anche un solo euro messo su una qualche “sagra della porchetta” – per usare la formula che a Palazzo Chigi circola con ironia – sarà un torto fatto agli italiani, e alla credibilità di chi guida il governo. E tutto questo Meloni lo sa. Sa che la sfida dell’autunno sarà tecnica e politica, e che non potrà affrontarla se dovrà continuare a tamponare le uscite dei suoi. Non può permettersi di perdere tempo in correzioni, smentite o compromessi continui. Per questo, più che lealtà, la premier ora chiede responsabilità. Chiede lucidità. Chiede alleati consapevoli del contesto in cui operano. Non bambini viziati in cerca di attenzione, ma co-protagonisti maturi di una stagione difficile. Perché il tempo della propaganda è finito. E se Salvini e Tajani non se ne accorgono, non sarà solo Giorgia Meloni a pagarne il prezzo.

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