Tra difesa e dazi: l’Italia sul doppio fronte dell’Atlantico

C’è un filo sottile, quasi invisibile, che lega due città, due vertici, due vocabolari diversi: quello della sicurezza e quello del commercio. Un filo che passa per L’Aja e arriva a Bruxelles, e che per l’Italia si tende al limite, tra le necessità strategiche e le vulnerabilità economiche. La difesa comune europea, rilanciata al vertice NATO nei Paesi Bassi, è un concetto antico che torna ciclicamente sotto forme sempre nuove. Questa volta il nuovo ha il volto di una soglia: il 5% del PIL da destinare alla spesa militare entro il 2035. È un impegno che l’Alleanza ha approvato formalmente, con l’avallo di Washington e la regia di Donald Trump. Ma nella stessa cornice in cui si discute di armamenti e deterrenza, si è riaffacciato un altro lessico: quello dei dazi. Tariffe potenzialmente asimmetriche fino al 50%, rivolte ai partner europei “riluttanti” sulla difesa. Una pressione che, nei corridoi della diplomazia, non è stata mai rivendicata apertamente come condizione, ma che si è fatta sentire con la forza silenziosa delle cose date per scontate dagli americani. L’Italia si è seduta a entrambi i tavoli. E da entrambi ha ricavato conferme e timori. Perché se l’impegno per la difesa comune è coerente con la sua visione politica – favorevole a una maggiore integrazione strategica nel perimetro NATO – il rovescio della medaglia è una vulnerabilità economica che pochi altri in Europa condividono allo stesso modo. Roma ha appoggiato la linea del rafforzamento militare, consapevole però che ogni punto di PIL destinato alla difesa dovrà fare i conti con vincoli di bilancio, compatibilità sociali e coesione interna. E soprattutto, ha capito subito che le implicazioni andavano oltre i radar e gli F-35: l’agenda che si stava scrivendo riguardava anche la bilancia commerciale. A Bruxelles, il giorno dopo, le parole si sono fatte più concrete. Il Consiglio europeo del 26 giugno ha dovuto affrontare ciò che la NATO aveva solo accennato: le conseguenze economiche del nuovo assetto atlantico. Gli Stati Uniti non hanno mai nascosto di voler discutere un nuovo equilibrio commerciale. E se l’Europa non avrà una posizione comune nelle prossime settimane, le minacce di dazi su acciaio, auto e tecnologia potrebbero tornare d’attualità. La Germania ha chiesto di trattare subito, spingendo per un’intesa “semplice e veloce”. L’Italia ha portato a Bruxelles una posizione articolata: disponibilità ad accettare un tetto massimo del 10% alle tariffe, ma solo a condizione che siano simmetriche, e in caso contrario che sia previsto un meccanismo di compensazione automatica nel caso in cui gli Stati Uniti decidano di colpire in modo selettivo i settori più esposti, come l’auto o l’agroalimentare. Un principio di equità che Roma ha difeso anche nei colloqui bilaterali. A complicare il quadro, ci sono anche i timori legati al fattore umano. Nei palazzi italiani, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non sfugge l’elemento di imprevedibilità che accompagna ogni ciclo di relazioni con l’amministrazione Trump. L’Italia è tra i Paesi che più hanno interesse a mantenere vivo e stabile il rapporto transatlantico, ma è anche consapevole che ogni apertura americana può trasformarsi in un irrigidimento improvviso. L’urgenza di una cornice chiara e vincolante nasce anche da qui: evitare che il negoziato si trasformi in una rincorsa a sorprese unilaterali. Nel frattempo, dalla Casa Bianca è arrivato un segnale distensivo: se da parte europea ci sarà un’apertura concreta, il congelamento delle tariffe potrà essere prorogato, consentendo di proseguire il confronto su basi politiche più solide. Un punto centrale della posizione italiana riguarda anche il metodo. Per Giorgia Meloni, gli impegni sulla difesa e quelli sui dazi devono essere parte di un unico pacchetto negoziale. Non possono essere separati, perché rappresentano due facce della stessa ambizione strategica: contribuire alla sicurezza globale e difendere l’autonomia economica. È su questa base che l’Italia intende costruire il proprio ruolo, favorendo una trattativa che tenga insieme equilibrio e coerenza. Nel concreto, la proposta italiana si muove su due binari: aprire un tavolo strutturato con gli Stati Uniti, per definire un'intesa commerciale, che scongiuri l’escalation; e avviare, in ambito europeo, un sistema di salvaguardie per tutelare i settori più esposti. L’obiettivo è chiaro: evitare che la convergenza sulla difesa si paghi con una frattura economica. Il pericolo più grande, infatti, non è solo la perdita di competitività, ma l’indebolimento della coesione interna all’UE. Perché se i dazi americani colpissero solo alcuni settori o alcuni Paesi, le fratture tra nord e sud, est e ovest, rischierebbero di allargarsi. È in questa cornice che l’Italia cerca di giocare un ruolo costruttivo. Né passiva, né aggressiva. Con un atlantismo che non è subalternità, ma adesione consapevole a un’architettura comune. E con una linea economica che non vuole rinunciare al mercato, ma pretende condizioni eque. Da L’Aja a Bruxelles, l’Italia c’era. Ora si tratta di esserci anche nelle scelte che verranno.

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