Meloni e la sfida nazionale

Dopo la morte di Papa Francesco, con l’Italia al centro della scena globale come cuore spirituale della cristianità, Giorgia Meloni ha vissuto settimane di intensa esposizione istituzionale e diplomatica. A consolidare la sua immagine sulla scena internazionale è stato anche il viaggio del 17 aprile a Washington, dove ha incontrato Donald Trump. Un colloquio definito strategico, incentrato su dazi, politica estera e rapporti transatlantici, durante il quale la premier ha ribadito la sua linea: “Lealtà ma non subalternità” nei confronti degli Stati Uniti. Un’agenda fitta, coronata da due interviste ravvicinate, che sembrano voler rafforzare la narrazione di una leader salda e autorevole. Eppure, dietro la vetrina internazionale, il quadro interno è molto più fragile. Le tensioni nella maggioranza sono tutt’altro che sopite. Il governo va avanti, ma la coesione tra gli alleati rischia di essere più formale che sostanziale. Le divergenze su diversi temi cruciali – dal premierato all’autonomia differenziata, dalla giustizia al fisco – evidenziano quanto il cantiere delle riforme sia più accidentato del previsto. A rendere tutto più complesso c’è il nodo delle risorse. La congiuntura economica e i vincoli di bilancio imposti dal nuovo Patto di stabilità europeo limitano fortemente la possibilità del governo di varare provvedimenti di forte impatto economico e sociale. Si naviga a vista, con margini di manovra sempre più stretti, e con la necessità di trovare compromessi interni che spesso depotenziano le iniziative. Le promesse di tagli strutturali alle tasse, incentivi al lavoro e riforme profonde si scontrano con una realtà fatta di conti pubblici da difendere e coperture difficili da reperire. Uno dei dossier più urgenti è quello del PNRR. La lentezza nell’attuazione e la scarsa capacità di spesa hanno reso inevitabile una rimodulazione del Piano, che ora appare non solo auspicabile ma necessaria. Le istituzioni europee attendono risposte chiare e progetti concreti. Il rischio – non più solo teorico – è di perdere una parte dei fondi se non si cambia passo. E proprio in questo contesto si avverte la pressione, all’interno della maggioranza, di forze politiche che spingono per dare visibilità alle proprie bandiere, finendo per rallentare il processo decisionale. Nell’intervista del 2 maggio, Meloni ha rivendicato con forza i risultati ottenuti: “Un milione di nuovi posti di lavoro, in gran parte a tempo indeterminato e con un record per l’occupazione femminile”. Una risposta diretta alle critiche delle opposizioni – che l’hanno accusata di raccontare “un Paese che non esiste” – ma anche un tentativo di difendere la legittimità dell’azione di governo in un contesto economico complicato. “Abbiamo stabilizzato il taglio del cuneo fiscale, rinnovato contratti pubblici, sostenuto le assunzioni di giovani e donne”, ha detto, annunciando un confronto con le parti sociali per l’8 maggio e nuovi interventi per la sicurezza sul lavoro, con oltre 1,2 miliardi stanziati tramite Inail. Sui salari, Meloni ha risposto indirettamente anche al presidente Mattarella: “Abbiamo cambiato rotta e lo dimostrano i numeri”, ha affermato, difendendo le scelte del governo. E sull’antifascismo ha rilanciato lo scontro politico: “Rifuggo da un uso strumentale di quella categoria. Il discrimine è tra chi difende la libertà sempre e chi solo quando gli conviene”. Ha inoltre denunciato “attacchi sessisti” subiti “nel silenzio di chi si riempie la bocca con i diritti delle donne”. Sul fronte europeo, Meloni ha rivendicato il rapporto di collaborazione con Ursula von der Leyen e il dialogo con Francia e Germania, pur rimarcando la necessità di “rimodulare il Green Deal” per non penalizzare le imprese italiane. “Con Merz e Macron abbiamo sensibilità diverse, ma troviamo convergenze sui dossier che contano”, ha detto, cercando di mantenere una posizione di equilibrio tra le anime del centrodestra europeo. Ma è sul piano interno che le frizioni si fanno più visibili. La “madre di tutte le riforme”, come la premier definisce il premierato, è osteggiata da Forza Italia e guardata con sospetto dalla Lega, che teme un ridimensionamento del proprio peso in un sistema incentrato sulla figura del capo del governo eletto direttamente. Lo stesso vale per l’autonomia differenziata, fortemente voluta da Salvini, ma avversata da parte del centrodestra meridionale e da ampie fasce del mondo produttivo e sindacale. L’equilibrio si fa ancora più precario quando le riforme si incagliano nei numeri parlamentari o si scontrano con il rischio di impopolarità. Mentre Salvini insiste sul Ponte sullo Stretto – “una sfida da civiltà millenaria”, come l’ha definita – Meloni mantiene il sostegno al progetto, ma con la consapevolezza delle difficoltà attuative e finanziarie. Il vero banco di prova resta, dunque, la tenuta della maggioranza. Se il governo vuole arrivare a fine legislatura, dovrà non solo evitare lo stallo sulle grandi riforme, ma anche trovare un terreno comune in una coalizione divisa non tanto dai programmi elettorali quanto dalle ambizioni personali e dai calcoli futuri. Una sfida di equilibrio più che di leadership.

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