Meloni e la tentazione del voto anticipato

C’è un chiacchiericcio sempre più insistente che attraversa la politica romana. Un parlottare tipico dei momenti che precedono i cambiamenti e che spesso annunciano fasi nuove o la fine di un ciclo. Sono voci di voto anticipato, che sembrano tracciare la parabola di un governo che, pur superando il giro di boa della legislatura, comincia a mostrare qualche crepa. L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, nato nel 2022 con una maggioranza solida e un mandato forte, appare oggi appesantito da tensioni interne, rapporti con i partner europei non sempre fluidi, ma soprattutto un’agenda politica che resta su carta, senza riuscire a fare il salto da impegno a realtà. Ecco allora che a tenere banco è la suggestione di un possibile ritorno alle urne prima del tempo designato. Ufficialmente tutti lo negano, ma dietro le quinte il tema sembra essere oggetto di valutazione. Raccogliendo le confidenze di ministri e sottosegretari, si evince in maniera evidente una crescente consapevolezza che l’attuale assetto potrebbe non reggere sino alla fine naturale della legislatura. Più di uno di loro, infatti, ammette che la primavera del 2026 potrebbe rappresentare il limite massimo prima di un nuovo passaggio elettorale. Uniti ma non troppo: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia su strade divergenti La coalizione di centrodestra non è mai stata un blocco monolitico, ma nelle ultime settimane le distanze tra i partiti che la compongono sono diventate difficili da gestire. Fratelli d’Italia prosegue nel suo tentativo di mantenere una linea di governo compatta e responsabile, mentre la Lega sembra spinta da una strategia più identitaria e populista, sempre più spesso in contrasto con quella della premier. Salvini, reduce da mesi di attivismo diplomatico non coordinato con Palazzo Chigi, non esita a smarcarsi su dossier delicati, in primis i rapporti con l’Ucraina, per non parlare del tema del riarmo europeo. Anche Forza Italia, con Antonio Tajani, appare sempre più insofferente rispetto all’alleato leghista. Il vicepremier azzurro non nasconde la propria irritazione per le uscite estemporanee di Salvini su temi di politica estera, ritenute da un lato poco coerenti con la collocazione europeista e atlantista del suo partito e del governo, dall’altro un affronto bello e buono verso chi ha la responsabilità della politica estera, ossia Meloni e Tajani stesso. A complicare ulteriormente i rapporti nella maggioranza, c’è l’incontenibile ambizione di Salvini di tornare a occupare il Viminale. Dopo mesi di auspici tenuti sottotraccia, il leader della Lega ora è uscito allo scoperto. La richiesta è quella di un rimpasto che gli permetta di riottenere il ministero dell’Interno, considerato da lui cruciale per rilanciare la propria immagine politica. Una prospettiva a cui Meloni guarda con ribrezzo, consapevole che una tale mossa rischierebbe di spostare l’asse dell’esecutivo verso una deriva ancora più conflittuale, ma soprattutto renderebbe tutto instabile: spostare una casella significherebbe ridiscutere tutto l’impianto, e a quel punto definire nuovi “pesi e potenze” sarebbe impossibile. PNRR: tra ritardi e difficoltà a spendere Non meno problematica è la questione, sempre più cruciale, del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’Italia è il principale beneficiario, con oltre 191 miliardi di euro destinati a finanziare riforme strutturali e investimenti strategici. Ma, al netto delle molteplici revisioni, l’attuazione procede a rilento, tanto che lo stesso ministro Giorgetti ha parlato di “proroga delle scadenze assolutamente necessaria”. Un’opzione che a Bruxelles, allo stato attuale, non contemplano neppure alla lontana. Le difficoltà sono numerose: da un lato, la burocrazia rallenta l’attuazione dei progetti; dall’altro, la gestione tra governo, regioni ed enti locali rende macchinosa la catena decisionale. Diversi partner europei iniziano a mostrare segni di impazienza, e l’inefficienza nella gestione del PNRR rischia di trasformarsi in un boomerang, laddove l’Italia ha già messo sul tavolo la richiesta di rivedere anche le regole del Patto di Stabilità. Senza dimenticare che, sul piano internazionale, una delle incognite più delicate riguarda il tema dei dazi. Le tariffe imposte da Trump sono state sospese, ma non revocate in modo definitivo. L’eventualità che vengano reintrodotte – in un clima globale di crescente protezionismo – preoccupa sia l’industria manifatturiera italiana che il settore agricolo, entrambi storicamente orientati all’export. Un ritorno alle barriere commerciali metterebbe a rischio miliardi di euro di esportazioni, colpendo regioni produttive come il Nord-Est, già esposte a rallentamenti economici. Il governo Meloni si muove con cautela, cercando un equilibrio tra fedeltà all’Alleanza atlantica e tutela degli interessi strategici italiani ed europei, ma sa che, su questo fronte, l’Italia ha margini di manovra limitati. La tentazione del voto per consolidare la leadership Di fronte a questo scenario, l’idea di una tornata elettorale anticipata assume contorni quasi affascinanti. Non sarebbe, per Giorgia Meloni, l’inizio della fine, ma una manovra calcolata per consolidare la propria leadership. I sondaggi, seppur in lieve flessione per Fratelli d’Italia, continuano a confermare il suo ruolo di "top player" per i conservatori nostrani. Ma il dato politicamente più interessante riguarda l’elettorato leghista. Il malcontento verso la gestione di Salvini – percepito da molti come distante dai problemi concreti e troppo concentrato su battaglie ideologiche – apre spazi significativi per una migrazione di consensi verso Fratelli d’Italia. Elettori del Nord, delusi da promesse non mantenute, potrebbero ritrovare nella figura di Meloni un’alternativa più credibile. Una tornata anticipata, già nel 2026, consentirebbe così alla premier di intercettare questo malcontento e capitalizzarlo in termini di seggi. Con un sistema proporzionale – ipotesi sempre più discussa in Transatlantico, a Montecitorio – Meloni potrebbe costruire una nuova maggioranza su misura, svincolandosi da alleanze logore e problematiche, ed aprendo a nuovi interlocutori centristi. In questa partita entra in gioco il rapporto con Carlo Calenda. Meloni ha partecipato al congresso di Azione, e su molti punti ci sono convergenze: i contatti su una nuova legge elettorale sarebbero ormai pressoché quotidiani tra gli emissari dei due partiti. Sei mesi per decidere I prossimi mesi saranno decisivi. Il quadro economico, le elezioni regionali, i referendum: ogni appuntamento sarà un banco di prova per i partiti della maggioranza e potrebbe influenzare le scelte della premier. Addirittura, all’interno di Fratelli d’Italia, si registrerebbero già attività di scouting per nuove candidature, segnale che qualcosa si muove. A chi immagina come giustificare un punto di rottura gli spunti non mancano: tra legge di bilancio e investimenti per la difesa sono molteplici gli inciampi sui quali il governo potrebbe cadere. Per non parlare della stessa opzione Salvini: mortificato pubblicamente, sbattendogli in faccia che mai e poi mai tornerà al Viminale, lo si potrebbe spingere a far saltare tutto. “Una specie di Papeete indotto”, sghignazzano i più maliziosi. In Parlamento, nel frattempo, l’atmosfera è come sospesa. Sedute rinviate, corridoi semi-deserti già a inizio settimana, lavoro legislativo paralizzato. Sintomi di un sistema in attesa di impulsi che trasmette però un messaggio chiaro: il ciclo politico apertosi nel 2022 è entrato nella sua fase discendente, ora bisogna decidere come muoversi in questo tratto. Giorgia Meloni si trova di fronte a un bivio: continuare a governare in un contesto di crescenti divisioni, con un’agenda appesantita dalle promesse disattese, oppure rompere gli indugi e cercare un nuovo mandato, magari allargando la propria base elettorale. In entrambi i casi, la sfida è complessa. Ma, se la premier scegliesse la seconda opzione, avrebbe l’opportunità di trasformare questa stasi politica in un’occasione di rafforzamento. A patto di saper leggere, e governare, i segnali del tempo.

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