Ius soli, ius scholae e ius soli sportivo: leggi adeguate o da rivedere?

Il dibattito sulla cittadinanza italiana per gli stranieri che risiedono nel nostro Paese è una questione aperta da tempo. C'è chi sostiene che la norma relativa, la legge 91 del 1992, sia da rivedere e aggiornare, facilitando l'accesso alla cittadinanza a coloro che nascono o crescono in Italia da genitori stranieri. E c'è chi, invece, ritiene che la normativa sia adeguata ed efficace e che, quindi, non necessiti di alcuna revisione. Sul tema si sono confrontati, durante la seconda puntata di “Materia Grigia”, il talk di confronto di Sky Tg24 condotto da Fabio Vitale, Insaf Dimassi, ricercatrice dell'Università di Bologna e attivista, e Francesco Giubilei, direttore scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. La legge sulla cittadinanza italiana In Italia la legge sulla cittadinanza, numero 91 del 5 febbraio 1992, stabilisce che ad acquisire di diritto, alla nascita, lo status di cittadino italiano siano coloro i cui genitori sono, a loro volta, italiani. Si tratta del cosiddetto ius sanguinis, cioè il diritto di sangue. Esiste, in alcuni casi, anche uno ius soli, cioè un diritto alla cittadinanza derivante dalla nascita sul territorio italiano. Ciò è possibile quando si nasce in Italia da padre e madre stranieri, al compimento del diciottesimo anno d'età, e solo se si risiede ininterrottamente nel nostro Paese fin dalla nascita. Sempre nell'ambito dello ius soli, si può diventare cittadini italiani se apolidi o abbandonati da genitori ignoti o ancora se la madre e il padre non possono trasmettere la propria cittadinanza. Può diventare cittadino italiano anche chi sposa o fa un'unione civile con un cittadino o una cittadina italiana, o anche chi, in casi eccezionali, ottiene meriti nei confronti dello Stato. La cittadinanza può anche essere revocata nel caso in cui si presti servizio militare per uno Stato straniero o a seguito di una condanna per terrorismo. La legge, inoltre, prevede modalità agevolate di accesso alla cittadinanza per gli stranieri con ascendenza italiana. Resta, però, un'ampia discrezionalità dell'amministrazione pubblica nella concessione della cittadinanza alle persone straniere, che deve essere sempre motivata. L'accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri andrebbe esteso, limitato o va bene così com'è? Dimassi: “La legge sulla cittadinanza attuale, la legge 91 del 1992, è una legge iniqua e anacronistica. Basti pensare al fatto che un milione di ragazzi che dovrebbero essere italiani al 100% riconosciuti dalla legge, ad oggi non hanno accesso alla cittadinanza. È una legge iniqua perché ce lo dimostrano i dati. La legge nasce più di 30 anni fa, nel 1992, quando le persone stranieri in Italia erano poco più di 600mila. Oggi sono più di 5 milioni e rappresentano l'8% del tessuto sociale italiano. Inoltre, ai tempi, non esisteva quella categoria sociale che siamo noi, figli di genitori stranieri, ma non stranieri. Non abbiamo fatto nessuna scelta di immigrazione quando eravamo piccoli. Io sono nata in Tunisia e sono arrivata in Italia all'età di nove mesi e oggi a 27 anni ancora non ho la cittadinanza. Quindi sì, la legge attuale è da riformare. C'è da colmare un vuoto normativo non è da cambiare in toto. Le parti che ci sono adesso vanno bene, ma c'è un vuoto normativo. Chi nasce o cresce sul suolo italiano deve soddisfare altri requisiti per accedere la cittadinanza, come i requisiti scolastici o appunto la nascita, perché non possono essere semplicemente il sangue o il reddito a determinare l'accesso a qualcuno alla cittadinanza italiana. Ecco, colmare questo vuoto normativo sarebbe un passo avanti per il nostro Paese e per una società più giusta ed equa”. Giubilei: “La legge sulla cittadinanza italiana è una legge che funziona. L'italia è la nazione all'interno dell'Unione Europea che nell'ultimo anno ha concesso il maggior numero di cittadinanza. Secondo i dati del Viminali, sono state concesse nel 2022 213mila cittadinanze. Ciò significa che il 22% dei nuovi cittadini dell'Unione Europea sono stati nominati, sono stati dichiarati tali tali dall'Italia. Se facciamo il paragone con una nazione come la Germania, che da un punto di vista di abitanti evidentemente più grande dell'Italia, ci accorgiamo che sempre nel 2022 solamente 160mila sono i nuovi cittadini tedeschi. Ciò significa che già ad oggi in Italia per chi vuole ottenere la nostra cittadinanza può farlo portando avanti un percorso che consente di diventare cittadini italiani al diciottesimo anno di età e bisogna ricordare che la cittadinanza senza dubbio dà dei diritti ma implica anche dei doveri. Il raggiungimento del diciottesimo anno di età significa avere la consapevolezza dei diritti, ma anche dei doveri che un cittadino deve dimostrare nei confronti della propria nazione. Poi è chiaro, ci sono alcune cose da migliorare, come per esempio il tema della burocrazia: è evidente che c'è un problema burocratico che purtroppo riguarda la nostra macchina pubblica e riguarda anche quei diciottenni che richiedono la cittadinanza e poi per ragioni burocratiche che si trovano nella lentezza della burocrazia italiana e passa molto tempo nel momento in cui l'hanno richiesta. Su questo io sono d'accordo a intervenire, ma non cambiare la legge perché così come è funziona”. Dimassi: “Sulla questione Italia-Paese che concede più cittadinanze. Come valore assoluto questo dato è corretto, ma bisogna contestualizzare i dati. L'italia concede così tante cittadinanze perché i ragazzi che nascono nel nostro Paese nascono stranieri e poi diventano cittadini italiani. Il caso della Germania che è appena stato citato ha una sorta di Ius Soli: chi nasce sul suolo tedesco con un genitore residente da almeno otto anni, nasce automaticamente tedesco. Quindi il conteggio finale è naturalmente più basso, ma che c'è una legge più agevole in Germania”. Giubilei: “Il punto è che il meccanismo di cittadinanza che applicano le altre due grandi nazioni europee, che sono la Francia da un lato e la Germania dall'altro lato - in particolare il caso francese, dove esiste uno Ius Soli molto più consistente rispetto al nostro - è un modello che è evidentemente fallimentare e lo vediamo nella mancata integrazione delle seconde generazioni. Quindi, la soluzione non può essere seguire la legge tedesca o la legge francese perché alla prova dei fatti ci stiamo accorgendo che non funzionano. Tant'è che c'è un dibattito importante in Francia per cambiarla”. Con lo Ius Scholae, una persona straniera otterrebbe la cittadinanza italiana al compimento di un ciclo di studi. Favorevole o contrario? Giubilei: “Anche in questo caso non c'è bisogno di modificare la legge italiana. Citavo prima il caso dello Ius Soli che ha evidentemente delle differenze rispetto allo Ius Scholae, ma anche lo Ius Scholae è un sistema che non funzionerebbe nel migliorare l'integrazione di tanti giovani che oggi studiano nelle scuole italiane. L'Italia è una nazione che evidentemente come tante nazioni, ci sono cose da migliorare, però dobbiamo anche riconoscere il fatto che, essendo per fortuna una nazione civile, concediamo anche ai cittadini stranieri quei diritti fondamentali. In primis, una scuola pubblica gratuita, e questo viene concesso anche a chi non ha la nostra cittadinanza che può usufruire del percorso scolastico nelle scuole italiane, e dall'altro lato, l'altro tema importante che è la sanità. La sanità pubblica italiana è a disposizione anche e giustamente, aggiungo, dei non cittadini italiani, poi una volta che il ragazzo o la ragazza che hanno studiato nelle scuole italiane raggiungono il diciottesimo anno di età hanno la possibilità di avere quei diritti, anche politici, come per esempio il voto ,che ottengono anche i loro colleghi che hanno già la cittadinanza. Ma fare un percorso nelle scuole italiane è importante anche per conoscere quella che è la nostra storia, per conoscere quella che è la nostra identità. E quando si raggiunge il diciottesimo anno di età si diventa tutti gli effetti cittadini italiani”. Dimassi: “Io credo che questo sia uno strumento molto ragionevole per poter garantire l'inclusione e l'accesso alla cittadinanza a chi è italiano di fatto ma non riconosciuto dalla legge. Lo Ius Scholae andrebbe a colmare per l'appunto quel voto normativo e a riconoscere dal punto di vista giuridico la cittadinanza di una persona che, come me, è cittadino a tutti gli effetti. Io ho studiato e in questo momento sto facendo un dottorato in Italia, eppure ancora non ho avuto accesso alla cittadinanza italiana, proprio per l'anacronismo e per le ingiustizie della legge attuale. Lo Ius Scholae, che poi sia un ciclo di studi, due cicli di studi, questo sarà al legislatore decidere quale formula adottare. La cosa importante è che le leggi cambiano perché cambia la società: la società di oggi è mutata rispetto a quella del 1992. È compito della politica, del legislatore prendere atto di questo cambiamento, fotografare la società attuale e quindi investire anche per il futuro di questo paese. Ricordiamoci che è vero l'accesso al diritto politico avviene a 18 anni, ma prima ci sono altri diritti. E come ci insegna Anna Arendt la cittadinanza non è soltanto un diritto ma è il diritto ad avere diritti, quindi non bisogna trattare la cittadinanza come un tema collaterale: è un tema importante che garantisce l'integrazione, il pieno riconoscimento, il riconoscimento sociale di chi non ha il sangue italiano, non ha la pelle bianca ma è comunque italiano al 100%. Perché oggi si è italiani anche in questa maniera e cambiare la legge vorrebbe dire riconoscerlo”. Per quanto riguarda lo Ius Soli sportivo, concederebbe la cittadinanza italiana anche per meriti sportivi oppure no? Dimassi: “Nel caso in cui dovessero esistere altre forme come un Ius Soli temperato o un Ius Culturae potrei essere a favore di un Ius Soli sportivo. Il fatto è che la cittadinanza non è un premio, non è una cosa che si deve meritare. La cittadinanza è un diritto, il diritto più importante di tutti. Ricordo che il dibattito sull'Ius Soli sportivo si è acceso dopo le Olimpiadi e ci si è resi conto che, quindi, questa categoria della popolazione potrebbe fare comodo per raggiungere degli obiettivi sportivi. La cittadinanza però non è un premio, è un diritto e i criteri di accesso devono essere generali e accessibili per tutti. Tutte le altre persone che non hanno meriti sportivi cosa dovrebbero fare? Essere escluse dall'ottenimento di un diritto perché non sono campioni olimpici? Questo è ingiusto. Nel momento in cui ci sono altre forme generali di inclusione per accesso alla cittadinanza, ripeto per seconde generazioni, per giovani italiani che lo sono già ma non sono riconosciuti, per figli del nostro Paese, per i ragazzi che studiano negli stessi banchi di scuola dei vostri figli, ecco in quel caso si potrei accettare un Ius Soli sportivo, solo un Ius Soli sportivo sarebbe discriminatorio”. Giubilei: “Sento parlare molto di diritto, ma la cittadinanza è un diritto fino a un certo punto per un cittadino straniero, perché un cittadino straniero per ottenere la cittadinanza deve anzitutto rispettare una serie di doveri nei confronti dello Stato a cui si appresta a diventare cittadino. Se si pone il tema della cittadinanza solo ed esclusivamente come una questione di diritti che vengono acquisiti e si dimentica un passaggio estremamente importante che è quello dei doveri, ci ritroveremo in Italia - come peraltro sta accadendo già nelle periferie di una città come Milano - a vivere delle situazioni che sono le situazioni che si vivono nelle banlieue francesi e che si vivono in gran parte delle città americane, dove c'è un evidente problema di integrazione per le seconde generazioni. Perché è stato fatto passare un messaggio sbagliato da un punto di vista culturale e sociale, che fa sì che il tema della cittadinanza si basi sul concetto solo ed esclusivamente di diritto, ma non sul concetto di dovere. Per quel che riguarda lo Ius Soli sportivo, dico che esiste già uno Ius Soli sportivo che è stato introdotto nel 2016, che permette di accelerare le procedure per quegli atleti che sono degli atleti meritevoli: è un concetto di meritocrazia che mi sento di condividere. E dico anche che il dibattito che si è aperto negli olimpiadi è un dibattito francamente un po' fuori luogo, perché già ad oggi ci sono, nelle nostre nazionali - la nazionale della pallavolo è forse emblematica da questo punto di vista - tanti atleti che sono figli di seconde generazione, che sono figli dei genitori stranieri, ma che possono essere cittadini italiani e gareggiare”. Dimassi: “Insisto tanto sulla questione del diritto perché stiamo parlando di bambini. Stiamo parlando di bambini che nascono sul suolo italiano o di bambini che arrivano in età prescolare. Per cui parlare di doveri nei confronti di neonati o di bambini mi sembra chiaramente fuori luogo. È chiaro che quando si parla di un adulto che arriva in Italia in età adulta, portandosi un altro carico di valori, un'altra cultura, è giusto richiedere a questa persona di dimostrare un reddito, di rispettare la legge, di adempiere a questi doveri, ma quando si parla di bambini bisogna invece parlare di diritti”. Giubilei: “Invece è esattamente il contrario: è proprio nei bambini, nei giovani, nei ragazzi che bisogna insegnare un percorso di educazione. Proprio il fatto che nella nostra società si sono messi in discussione i due pilastri dell'educazione, che sono la famiglia da un lato e la scuola dall'altro lato, ci porta a far sì che sia venuto meno anche un principio di autorevolezza dei genitori e dei professori e porta a far sì che vi siano fenomeni come per esempio le baby gang, come ci siano dei fenomeni di criminalità tra i 12 e i 13 anni, inimmaginabili fino a qualche anno fa e proprio i giovani vanno educati”. Dimassi: “Sì, sono d'accordo sul fatto che il dovere deve essere il cardine principale dell'educazione. Ed è per questo che la riforma - proposta tra l'altro dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Tajani - è quella dello Ius Scholae, perché è la scuola il primo istituto di socializzazione dove si imparano le regole, le leggi, la Costituzione. Riconoscere la cittadinanza attraverso la frequenza scolastica vuol dire proprio fare quello che sta proponendo il dottor Giubilei: utilizzare l'educazione, utilizzare la scuola come criterio di riconoscimento dell'identità nazionale. Meglio di così?”

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