Un commissario all'italiana per la squadra di Von der Leyen

Che l’Italia avrà un commissario nessuno le mette in discussione, è sempre stato così e altrettanto sarà questa volta. Il nodo vero, da cui si determinerà il successo o l’insuccesso del nostro governo, è quale commissario, con quali deleghe, con quale peso verrà assegnato al nostro paese. Piccola premessa. In questa partita europea nulla è andato come ci si aspettava. Dal risultato del voto sino alla semplicità con cui si è arrivati alle nomine dei cosiddetti Top Jobs, i vertici apicali delle istituzioni comunitarie. Il voto che non ti aspetti Il risultato elettorale ha registrato la chiara vittoria dei popolari, i socialisti hanno tenuto, i verdi sono cresciuti, le destre non hanno sfondato e i conservatori di Giorgia Meloni non hanno raggiunto un livello di consenso tale da essere determinanti. Quest’ultimo passaggio, insieme alla sconfitta in casa di Macron e Scholz, è stata la chiave per assicurare a Ursula Von Der Leyen una rielezione alla guida della commissione tutt’altro che scontata. Proprio Francia e Germania avevano lasciato intendere che sul suo nome non ci sarebbe stata trippa per gatti, laddove Ursula aveva via via coltivato rapporti sempre più stretti proprio con Giorgia Meloni. La conferma di essere pronta a fare un accordo anche con il “nemico” pur di restare al proprio posto. Scenario che però non si è realizzato: la vecchia maggioranza inaspettatamente si è ritrovata sufficientemente autonoma e forte per non dover cambiare assetto. A quel punto, scongiurato il rischio di un esecutivo con i conservatori in posizione privilegiata ed alle prese con i problemi in casa, anche Macron e Scholz hanno avuto gioco facile nel riposizionarsi con Ursula. Qui iniziano invece i problemi per l’Italia. L'Italia e la scommessa persa Il nostro governo aveva scommesso tutto su un ruolo diverso delle forze conservatrici, famiglia politica sino a quel momento presieduta proprio da Giorgia Meloni. Ci si immaginava di poter dettare tempi e nomi, linee di programma, cambi di paradigma. Insomma spostare l’Europa dalla propria parte. Fuori da questo meccanismo per mancanza di numeri, si è scelto quindi di rivendicare una centralità al grido de “il vento è cambiato, bisogna comunque tenerne conto”. Slogan che nella dinamica europarlamentare non ha attecchito, lasciando il posto al più pragmatico – nonché democratico – “chi vince va al governo”. È a quel punto che la partita politica prevale su quella governativa. L’Italia decide di non votare per Von Der Leyen, dice no anche al portoghese Costa nominato alla guida del consiglio, si astiene sulla Kallas nel momento in cui le viene affidata la politica estera. Per molti in questo passaggio si consuma un errore che adesso rischia di costarci caro. Negando il dialogo e posizionandosi non solo all’opposizione ma sulla stessa linea delle forze più estremiste, fa sì che strappare un ruolo di peso diventi molto più complicato. Giorgia e Ursula, amiche non a tutti i costi Giorgia Meloni, nonostante tutto, ha un ottimo rapporto con Ursula, la quale però deve pensare prima di tutto a salvaguardare sé stessa. Accordare un posto troppo in alto ad un governo che sulla carta è ostile è complesso anche per chi questa coabitazione l’aveva messa in conto già molto tempo fa. Ad Ursula poi non è piaciuto l’essere tirata in ballo, con tanto di lettera firmata dalla premier, per il rapporto sullo stato di diritto e la libertà di informazione. Ritrovarsi coinvolta in una polemica tutta politica e tutta italiana, tutta concentrata sulla RAI, ha creato non poche perplessità. Così come il tentativo di far rientrare la questione parlando poi di “volontà di riflessione comune” e non di “critica alle istituzioni” è stato visto come una mancanza di sangue freddo non proprio in linea con lo standing di Bruxelles. Una vice presidenza esecutiva – che Meloni chiedeva con insistenza insieme al commissario – è di fatto sfumata in modo definitivo. Non c’è motivo per assegnare un ruolo del genere a chi pubblicamente ti ha osteggiato. Anche se quel qualcuno porta il nome dell’Italia. Resta, dunque, il commissario. Palazzo Chigi lo vorrebbe con deleghe economiche di rilievo, casomai con responsabilità sul Pnrr, di certo non un gregario. Ma anche in questo caso. Perché si dovrebbe valorizzare chi – nonostante i numeri elettorali – non ha voluto guardare quei numeri, atteggiandosi da vincitore anche senza aver vinto? Se si chiede agli europei non c’è nessun motivo per andare in quella direzione. Se si chiede agli italiani, la risposta è che l’Italia è l’Italia, nonostante il governo di turno. Posizioni difficili tanto da mettere insieme, quanto da sostenere laddove per un commissario di un paese che viene nominato, vi è un aspirante commissario di un altro paese che rimane a bocca asciutta. Il rischio reale in questo momento è pertanto quello di ritrovarsi con una nomina di circostanza. Un ruolo senza un portafogli reale. Un rappresentante senza un vero margine di manovra. A tutto questo vanno poi sommate le cose di casa. I nomi sul tavolo, le difficoltà di un trasloco La maggioranza di governo si è presentata e si ritrova divisa sulla scena europea. Forza Italia con Ursula, la Lega che grida al golpe, Fratelli d’Italia che dà un colpo al cerchio ed uno alla botte. Un quadretto che agli esigenti partner europei rischia di apparire come un segnale di inaffidabilità. Soprattutto in un momento incerto come quello attuale, dove il rischio di dover fare scelte difficili è tutt’altro che remoto. C’è poi il capitolo candidati. Giorgia Meloni entro il 31 agosto dovrà presentare due nomi, un uomo ed una donna, che ufficialmente rappresenteranno l’opzione italiana per il ruolo di commissario. Sul tavolo sino ad ora sembrano esserci solo quelli di Raffaele Fitto ed Elisabetta Belloni. Il primo non incontra alcuna resistenza se non che la sua sostituzione a Roma rischia di essere difficile. Su di sé grava tutto il peso del Pnrr e della sua messa a terra. Un cambio alla guida della macchina può provocare scossoni difficili da contenere. Diverso il discorso su Belloni. Ha dimostrato compostezza e affidabilità nella gestione del G7 in Puglia, ma resta un funzionario dello stato estraneo alla macchina politica. Il dubbio è che una volta arrivata a Bruxelles l’aspetto tecnico prevalga sulla tenuta di un ruolo che qui a Roma vogliono anche a difesa delle proprie istanze. Insomma un quadro tutt’altro che definito. Con la partita per il commissario ancora aperta. E con l’Italia che ancora una volta deve dimostrare di essere seria, affidabile e responsabile. Un esame che si pensava già superato ma che è tornato invece attuale più che mai.