In Evidenza
Altre sezioni
altro

Per continuare la fruizione del contenuto ruota il dispositivo in posizione verticale

Migranti, torture e traffico di esseri umani in Libia: tre fermi a Messina

Sicilia
Foto di archivio (Getty Images)

Avrebbero trattenuto in un campo di prigionia libico decine di profughi pronti a partire per l'Italia. I migranti hanno raccontato di essere stati torturati, picchiati e di aver visto morire compagni di prigionia

Condividi:

Fermate tre persone a Messina, accusate di sequestro di persona, tratta di esseri umani e tortura. Secondo le accuse, avrebbero trattenuto in un campo di prigionia libico decine di profughi pronti a partire per l'Italia. I migranti hanno raccontato di essere stati torturati, picchiati e di aver visto morire compagni di prigionia. Ad eseguire il fermo è stata la squadra mobile di Messina, su disposizione della Dda di Palermo.

Il pm di Agrigento: "Nei campi libici condizioni inumane"

"L'indagine - ha spiegato il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio - ha dato la conferma delle inumane condizioni di vita all'interno dei capannoni di detenzione libici e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l'umanità". Patronaggio ha espresso soddisfazione "per il lavoro investigativo svolto dalla Squadra Mobile di Agrigento sotto il coordinamento delle Procure di Agrigento e Palermo".

Le indagini

Secondo quanto emerso dalle indagini, i tre gestivano un campo di prigionia a Zawyia, in Libia, per conto di una organizzazione criminale. Nel campo i profughi, pronti a partire per l'Italia, venivano tenuti sotto sequestro e rilasciati solo dopo il pagamento di un riscatto. Le vittime, arrivate a Lampedusa il 7 luglio scorso dopo essere state soccorse dalla nave Mediterranea, hanno riconosciuto i tre carcerieri dalle foto segnaletiche mostrate loro dalla polizia. Sono immagini di migranti giunti in Italia in viaggi precedenti che, dopo ogni sbarco, gli agenti fanno visionare ai profughi per individuare carcerieri o scafisti. L'indagine è stata coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall'aggiunto Marzia Sabella e dal pm Gery Ferrara. Il fermo è stato eseguito dalla Squadra mobile di Messina.

L'organizzazione

I tre fermati sono Mohammed Condè, detto Suarez, originario della Guinea, 22 anni, Hameda Ahmed, egiziano, 26 anni e Mahmoud Ashuia, egiziano, 24 anni.  Sono accusati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all'omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Al momento del fermo si trovavano nell'hot-spot di Messina, ma erano arrivati in Italia qualche mese prima delle vittime. Secondo le accuse, i tre avevano dei ruoli ben definiti. Condè aveva il compito di catturare, tenere prigionieri i profughi e chiedere ai familiari il riscatto. Solo dopo il pagamento le vittime potevano proseguire il loro viaggio. Era Condè a dare ai profughi il cellulare per chiamare a casa e chiedere il denaro. Ahmed e Ashuia, invece, sarebbero gli altri due carcerieri: le vittime hanno raccontato anche di essere state torturate e malmenate da entrambi. Per gli investigatori il capo dell'organizzazione si chiama Ossama, rimasto in Libia: sarebbe lui a gestire il campo di prigionia di Zawyia in Libia.

Le violenze

I migranti hanno raccontato le violenze subite consentendo l'identificazione dei tre che lavoravano per Ossama. I profughi, con l'inganno, la violenza o dopo essere stati venduti da una banda all'altra o da parte della stessa polizia libica, venivano rinchiusi in una ex base militare capace di contenere migliaia di persone. Le vittime hanno raccontato di essere state sottoposte ad atroci violenze fisiche o sessuali e di aver assistito all'omicidio di decine di migranti. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri usavano un "telefono di servizio", tramite il quale migranti potevano contattare i loro congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Ai parenti venivano inviate le foto con le immagini delle violenze subite dai propri cari. Chi non pagava veniva ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini. Chi pagava, invece, veniva rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia.

Il racconto dei migranti

"Tutte le donne - racconta una delle vittime - che erano con noi, una volta alloggiate all'interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni". Secondo la testimonianza, "le condizioni di vita, all'interno di quella struttura, erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare - afferma - e, ogni tanto, pane duro. Noi uomini, durante la nostra permanenza venivamo picchiati al fine di sensibilizzare i nostri parenti a pagare denaro in cambio della nostra liberazione. Ci davano un telefono col quale dovevamo contattarli per dettare loro le modalità di pagamento. Durante la mia prigionia ho avuto modo di vedere che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare.".

La prigionia

"Tutti noi eravamo divisi in gruppi per nazionalità e per sesso - spiega un'altra vittima -. Le donne erano messe tutte insieme, mentre noi uomini eravamo divisi per la nazione di appartenenza. Io, ovviamente ero con i camerunensi. Le condizioni di vita del carcere erano dure. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno e ciò non bastava per placare la nostra fame, mentre l'acqua era razionata e non potabile, poiché bevevamo l'acqua del rubinetto del bagno. Tutti i giorni venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri. I carcerieri erano spietati. - continua - Il capo del campo si chiama Ossama ed è un libico. Vestiva in abiti civili e aveva delle pistole sempre con sé". "Ho visto morire tanta gente, - racconta - in particolare due fratelli della Guinea che sono deceduti a causa delle ferite subite nel campo. Con me all'interno di quel carcere c'era mia sorella Nadege che purtroppo è morta lì per una malattia non curata. Mia sorella aveva al seguito le due figlie di sette e dieci anni che sono ancora detenute in Libia. Ho visto molte donne venire violentate da Ossama e dai suoi seguaci".

Il reato di tortura

"Per la prima volta è stato contestato il reato di tortura che è stato introdotto nel luglio del 2017 - dice il vice questore aggiunto Giovanni Minardi, a capo della squadra mobile di Agrigento -. A parità di condotte criminose, è la prima volta che viene applicato il reato specifico di tortura oltre all'associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina, alla tratta, all'estorsione, alla violenza sessuale e agli omicidi". "L'attività investigativa è iniziata con il coordinamento della Procura di Agrigento, del procuratore Luigi Patronaggio e del sostituto Gianluca Caputo nello specifico. Una volta raccolti elementi di particolare rilevanza e di competenza della Dda di Palermo, gli atti sono stati trasmessi e l'attività è stata seguita dal procuratore aggiunto Marzia Sabella e dal pm Gery Ferrara", spiega il capo della Squadra Mobile di Agrigento.
"Abbiamo raccolto, così come facciamo ad ogni sbarco, informazioni e testimonianze da parte dei migranti che ci hanno raccontato le modalità del viaggio verso Lampedusa, ma anche le vicissitudini e il supplizio vissuto nell'ex base militare della città libica di Zawyia - prosegue Minardi -. I migranti tenuti sotto sequestro nella ex base militare venivano convinti a chiamare, al cellulare, i propri familiari che in diretta sentivano le violenze e i pestaggi". Molti dei migranti che hanno riconosciuto, attraverso le foto segnaletiche, i tre presunti carcerieri sono stati sentiti nei centri d'accoglienza di Castelvetrano e Marsala o in alcuni Comuni della Calabria dove nel frattempo erano stati trasferiti dopo l'approdo a Lampedusa. "Abbiamo il monitoraggio di tutti i migranti che sbarcano e dei loro spostamenti - sottolinea Minardi -. In questo caso, quando i sospetti si sono concentrati su queste tre persone, è stato avviato un controllo assiduo fino a quando non sono stati catturati in esecuzione del provvedimento di fermo".