La fine di The Grand Tour e il tramonto di un'epoca

In principio fu Top Gear: un programma di auto che non parlava solo di auto, che usava le auto per affrontare l’attualità , per intervistare attori e attrici, e per ridere. I tre presentatori, Jeremy Clarkson, James May e Richard Hammond, erano perfetti insieme. In qualche modo, riuscivano a compensarsi a vicenda. Clarkson era più esplosivo, meno contenuto, decisamente diretto: era il frontman della band. May, invece, era più riflessivo: offriva un altro punto di vista sui temi trattati. Hammond era sempre pronto a mettersi in gioco, in prima persona, provando le auto e correndo in pista. Nel giro di pochi anni, Top Gear era diventato un fenomeno globale: visto da più di 350 milioni di spettatori in tutto il mondo, tra i programmi tv più scaricati dell’epoca e con una capacità di finire costantemente sui giornali. È importante, però, fare una premessa. Clarkson, May e Hammond non sono solamente tre uomini di spettacolo. Nei loro servizi sulle auto, hanno offerto al pubblico competenza e professionalità. Conoscono perfettamente ciò di cui parlano, e su questo non c’è nessun dubbio. Il problema è arrivato dopo. Clarkson, May e Hammond appartengono a un altro mondo e a un’altra generazione. Il loro modo di scherzare è figlio di un’epoca totalmente diversa. E, attenzione, non è una giustificazione: è solo l’ennesimo dato di fatto. Per questo motivo, a un certo punto, la BBC ha deciso di sospendere Clarkson, e per questo motivo, poi, Clarkson, May e Hammond hanno scelto di andarsene e di cambiare casa, creando un nuovo programma tv. The Grand Tour doveva, nelle intenzioni iniziali, essere più ricco, più grande e più estremo di Top Gear; doveva mettere insieme tutte le cose migliori e smussare quelle che funzionavano di meno. Ogni nuova puntata doveva svolgersi in un posto diverso, con un tendone, il pubblico dal vivo e un argomento differente. Velocemente, però, Amazon ha dovuto fare i conti sia con la risposta del pubblico, che non è stata sempre quella che si aspettava, sia poi con l’incredibile sforzo produttivo che un programma del genere richiedeva. Il numero di puntate è diminuito. È stata scelta un’unica location, un po’ com’era stato con Top Gear. E nelle ultime stagioni il format più tradizionale, con interviste, interventi e vari servizi, ha lasciato il posto a una serie di speciali. L’ultimo, One for the Road, arriverà in streaming il 13 settembre e segnerà definitivamente la fine di un’epoca e di un sodalizio artistico. Niente più Clarkson, May e Hammond. Non così, non in questo modo. E non con questa frequenza . Rispetto a Top Gear, The Grand Tour ha perso parte di quel dinamismo e di quella voracità che avevano reso Clarkson, May e Hammond unici nel panorama televisivo. Se prima avere tre esperti di motori pronti a ridere di questa o quella decisione politica e a scherzare su qualunque cosa sembrava un atto quasi rivoluzionario, ora prendere determinate scelte è diventato ripetitivo e prevedibile. La forza di The Grand Tour è sempre stata un’altra, ed è di questo che dovremmo parlare. Con più risorse a disposizione, Clarkson, May e Hammond hanno potuto dedicarsi a dei veri e propri documentari sulle auto. Hanno approfondito gare storiche, dato lustro e visibilità a vecchi piloti, e hanno fatto un lavoro incredibile di ricostruzione. Di più: nei segmenti ambientati negli altri paesi, con loro tre alla guida di qualche macchina, il focus si è spostato. E The Grand Tour si è trasformato in una scusa per parlare dei posti e delle persone. Parallelamente, Amazon ha provato a sfruttare al massimo il talento di Clarkson, May e Hammond affidando a ognuno di loro programmi differenti: Clarkson ha avuto la possibilità di raccontare la sua fattoria e lo sforzo incredibile che richiede gestirla; May ha continuato a viaggiare, soffermandosi sui dettagli e sulle piccole cose che gli sono sempre piaciuti; Hammond, invece, è diventato il volto di alcuni programmi in cui non c’erano né auto né motori, ma solo la voglia di sperimentare e di provare a sopravvivere. The Grand Tour, sotto molti punti di vista, rappresenta la fine di un’epoca televisiva e di un certo modo di fare intrattenimento. I tempi sono cambiati ed è cambiato anche il pubblico, che oggi vuole cose più immediate e veloci e che ha un modo diverso, rispetto ad appena pochi anni fa, di fruire di serie e film. Se all’inizio passare ad Amazon, lasciando la BBC, è suonata come una buona idea, successivamente ha dimostrato tutti i suoi limiti. Perché Amazon, per quanto diffusa, non gode né della struttura né della stabilità della BBC. E gli spettatori che hanno visto Top Gear non coincidono esattamente con il target di riferimento dello streaming: sono più grandi, adulti, con gusti e abitudini completamente differenti. E non sono pronti – proprio come non lo sono Jeremy Clarkson, James May e Richard Hammond – a cambiare e ad adeguarsi alle novità. Top Gear affondava le sue radici nella linearità, in un tipo particolare di programmazione e di palinsesto; funzionava, se vogliamo, come una valvola di sfogo. Dopo il telegiornale, le serie e gli altri format di intrattenimento, arrivavano Clarkson, May e Hammond con la loro esuberanza e riuscivano a confezionare approfondimenti seri e affidabili sulle auto. The Grand Tour ha provato a seguire lo stesso percorso, ma ha dovuto affrontare infinite difficoltà: economiche, organizzative, creative e, chiaramente, distributive. Le piattaforme streaming non sono secchi da riempire con qualsiasi cosa in qualunque momento. Serve avere una visione, una linea editoriale, e Prime Video, nel momento in cui The Grand Tour è nata, non ne aveva ancora una così consolidata. E anche questo è un fatto. Clarkson, May e Hammond hanno fatto leva sul mestiere, sulla loro capacità straordinaria di parlare alle persone e di saper intrattenere trattando dei temi a loro più cari; sono stati, durante alcune puntate, dei divulgatori puri, attenti alla storiografia e alle fonti; hanno saputo, grazie alla loro squadra che si è occupata del montaggio e delle riprese, ricreare un’epica televisiva importante e palpabile, di cui, da molto tempo, si sentiva quasi la mancanza. Guardare oggi il primo episodio di The Grand Tour significa fare i conti con una serie di promesse che non è stato facile mantenere. La sua conclusione è una prova di quanto la chimica sia un elemento fondamentale all’interno della conduzione di un programma e di quanto, poi, sia eccezionale il talento. Che non è solo e semplicemente uno strumento, ma che va allenato, conosciuto e studiato con attenzione. Clarkson, May e Hammond rappresentano a loro volta un’epoca precisa della televisione: un’epoca in cui essere politicamente scorretti non era l’eccezione ma la regola; un’epoca in cui il cameratismo più becero non veniva visto come un limite ma, al contrario, come un moltiplicatore di audience. Editorialmente Top Gear è stata in grado di catapultare il piccolo schermo in un’altra dimensione, una potenzialmente globale e senza alcun confine. In qualche modo, ha anticipato lo streaming e la sua diffusione, senza però rinunciare alla sua natura. The Grand Tour è stato un animale completamente differente. L’hanno capito Clarkson, May e Hammond, che ne sono venuti velocemente a capo e che hanno imparato a gestirlo e tenerlo al guinzaglio. L’ha capito di meno la piattaforma, Prime Video, che ha quasi subito i vari cambiamenti del format e della formula del programma. Quello che ora resta, e che resta grazie allo streaming, è una raccolta ordinata di puntate e di stagioni, piena di esplosioni, di auto e di monologhi. E piena soprattutto di amicizia. Perché quello che hanno vissuto Clarkson, May e Hammond ha una sua verità e una sua ricchezza, e non può essere cancellato dalla fine di un programma o dalle decisione di un network. Certe cose, appunto, rimangono. The Grand Tour è morto, viva The Grand Tour.

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