“Missione Giustizia 2025”, il nodo cinese che stringe su Taiwan

“Una corda per avvolgere Taiwan e un nodo tradizionale per riunificare la Cina intera”. Con questo slogan la Guardia Costiera cinese ha annunciato la sua partecipazione alle ultime esercitazioni coordinate dall’Esercito Popolare di Liberazione - il braccio armato del Partito comunista cinese – attorno all’isola democratica che Pechino rivendica come propria. In allegato, una mappa di Taiwan con le cinque aree interessate dalle manovre, unite da una corda rossa e da un tradizionale intreccio cinese al centro. Si tratta di una delle tante immagini di propaganda che hanno raccontato le ultime 24 ore, ma che da sola restituisce il messaggio di Pechino a Taipei e al mondo: la questione taiwanese è ancora una priorità. E l’esercito cinese è sempre più pronto ad affrontarla. Esercitazioni a fuoco vivo e stress-test Battezzate Justice Mission 2025, “missione giustizia”, le esercitazioni cominciate il 29 dicembre si sono articolate su due giorni. Pechino non ha perso occasione di dare sfoggio dei suoi armamenti, mettendo in campo navi da guerra, aerei da combattimento e forze missilistiche, con la simulazione di un blocco dei porti e di attacchi a infrastrutture strategiche di Taiwan. Secondo quanto riportano le autorità taiwanesi, nelle ultime 48 ore sono stati impiegati circa 90 jet e 30 unità navali, tra caccia, bombardieri, droni, cacciatorpedinieri e fregate. Un’operazione su più livelli dal punto di vista militare, con cui Pechino ha voluto testare l’integrazione tra le sue diverse forze puntando su un approccio anfibio e su un blocco navale paralizzante invece che un’invasione vera e propria. Rispetto alle esercitazioni dello scorso aprile, le manovre hanno coinvolto aree più ampie. Ormai da prassi invece la strategia dello stress psicologico e del continuo deterioramento delle linee di competenza delle due sponde dello Stretto: da diversi anni, infatti, si sono moltiplicate le incursioni cinesi nello spazio di identificazione di difesa aerea di Taipei – l’ADIZ e le esercitazioni di questi giorni non hanno fatto eccezione. L’obiettivo rimane lo stesso: misurare tempi di reazione, resilienza e soglie di tolleranza di Taiwan. Perché adesso? Il contesto internazionale: Usa e Giappone Come spesso accade con le manovre cinesi, anche il tempismo non è casuale. Le esercitazioni arrivano dopo l’approvazione da parte degli Stati Uniti di un pacchetto record da oltre 11 miliardi di dollari per la vendita di armi a Taiwan e dopo le dichiarazioni della premier giapponese Sanae Takaichi, che ha evocato un possibile intervento di Tokyo in caso di invasione. Per Pechino, le esercitazioni sono quindi un messaggio contro le “ingerenze esterne” e un monito contro quelle che definisce le “forze indipendentiste”. Una su tutte: il presidente taiwanese Lai Ching-te. Taiwan sotto pressione, ma senza escalation A Taipei la condanna è stata netta, con il governo taiwanese che ha definito “irresponsabili” e “intimidatorie” le azioni di Pechino, assicurando però che di non voler “aggravare la situazione”. Da parte sua il presidente Lai, che al momento non gode di particolare fama all’interno del Paese, ha invitato i leader internazionali ad esporsi e a schierarsi apertamente contro le esercitazioni della Cina. Diverso è il caso per i civili, la cui reazione è rimasta misurata. Pescatori e viaggiatori raccontano disagi, cancellazioni e deviazioni di voli, ma anche una relativa tranquillità. Le esercitazioni militari cinesi, d’altronde, fanno ormai parte della quotidianità dell’isola. Questo almeno a partire dal 2022, dopo la visita dell’allora speaker della Camera statunitense, Nancy Pelosi, a Taipei, che aveva innescato le prime, imponenti, esercitazioni di ritorsione da parte della Cina. Gli Stati Uniti, bene ricordarlo, non riconoscono formalmente la Repubblica di Cina e seguendo la politica dell’Unica Cina non possono intrattenere relazioni diplomatiche con Taipei. Da qui le accuse cinesi di ingerenza e la risposta militare diventata poi negli anni prassi. Quelle di questi giorni sono infatti la sesta occasione di esercitazioni coordinate da parte della Cina di questo genere. Così, Taiwan, e i taiwanesi, vivono da anni sotto pressione costante, in questa sorta di “new normal” imposto dall’altro lato dello Stretto. Fragilità interne a Taiwan Il tutto si innesta su un contesto politico interno fragile per Taiwan, con Lai contestato e l’opposizione dialogante con Pechino, il Guomindang, che guadagna spazio e consensi. E non va meglio sul piano globale, con l’amministrazione Trump che su Taiwan si è mostrata fin qui accondiscendente rispetto alle rivendicazioni cinesi. Se da una parte il Congresso ha approvato la vendita di nuove armi a Taiwan, è vero anche che il presidente Donald Trump ha detto di “non essere preoccupato” di un’eventuale escalation. “Conosco bene Xi Jinping” ha commentato. “Non credo che invaderà Taiwan”. Un’ambiguità strategica, quella degli Stati Uniti, che negli occhi del presidente Usa resta perfettamente conciliabile con il mantenimento del rapporto con la Cina . Per il leader cinese Xi Jinping, quel nodo che si stringe racconta tutto. Taiwan resta un punto fermo, non negoziabile, per il Partito comunista cinese. Un messaggio ribadito mentre si avvicina il 2027, centenario dell’Esercito popolare di liberazione e orizzonte fissato da Xi per il suo completo rinnovamento. Non un conto alla rovescia, ma una linea rossa che Pechino vuole ricordare al mondo.

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Lucrezia Goldin