Gaza come l’Irlanda del Nord? Il dibattito in Uk è aperto

Che cosa hanno in comune le trattative per consolidare il cessate il fuoco a Gaza e gli accordi del Venerdì Santo, che misero fine a 30 anni di guerra civile a bassa intensità in Irlanda del Nord? A un primo sguardo nulla. A un’analisi più attenta emergono, però, dei punti di contatto. A partire da Tony Blair, l’ex primo ministro britannico che nel 1998 firmò l’intesa per conto del Regno Unito insieme a Bertie Ahern, allora premier irlandese. Per l’ex inquilino di Downing Street si profila un ruolo nel board of Peace, nonostante Blair non abbia lasciato un bel ricordo di sé in Medioriente, dopo la disastrosa esperienza della guerra in Iraq. Ci sono diversi commentatori britannici che, in questi giorni, hanno visto nella lista dei 20 punti di Trump l’influenza dal leader laburista, anche se molti altri osservano che la road map tracciata dall’attuale inquilino della Casa Bianca ricalcherebbe quella già tracciata con insuccesso dal suo predecessore, Joe Biden. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha parlato esplicitamente della capacità del Regno Unito di “de-commissionare” le armi, richiamando la propria esperienza con la demilitarizzazione dell’Irlanda del Nord. In parallelo, il ruolo di Jonathan Powell sta emergendo come ponte simbolico e operativo tra le due realtà. La diplomazia britannica ha operato in maniera discreta ma decisiva. Secondo alcuni analisti, il riconoscimento ufficiale da parte del Regno Unito dello Stato palestinese ha creato lo spazio politico necessario affinché gli attori regionali — in primis i membri della Lega Araba — si impegnassero formalmente nel piano di pace. Questo passo è stato interpretato da alcuni come essenziale per assicurare che Hamas e le altre parti palestinesi possano percepire un percorso verso una maggiore autonomia senza sentirsi minacciate. Powell ha gestito delicate trattative multilaterali, coordinando gli sforzi tra Stati Uniti, Regno Unito e Paesi arabi. La sua presenza nei negoziati è stata definita “tireless”, instancabile, da Steve Witkoff, l’inviato speciale di Donald Trump, che ha l’importanza della continuità e della competenza tecnica nelle fasi critiche. Detto questo, l’intervento pubblico di Mike Huckabee, ambasciatore statunitense in Israele, ha messo in luce le tensioni tra alleati: Huckabee ha definito “deliranti” le dichiarazioni della ministra dell’Istruzione britannica Bridget Phillipson, che aveva attribuito al Regno Unito un ruolo chiave nella mediazione. Questo episodio mostra come il consenso internazionale sia fragile e come i ruoli delle nazioni mediatrici possano essere percepiti in maniera divergente. Una iniziativa del passato che ritorna è l’idea che il Regno Unito potrebbe lanciare un “Peace Fund” per Gaza sul modello dell’“International Fund for Ireland” . Questo suggerisce che, oltre al disarmo, si vorrebbe trasferire anche l’approccio del sostegno economico, del finanziamento della società civile e del rafforzamento del tessuto istituzionale nel nuovo accordo per Gaza. Questo atteggiamento porta però con sé il rischio che si pensi a una “esportazione” meccanica di modelli, senza adattarli alle condizioni locali. In diversi articoli di commento sui quotidiani britannici, emerge una critica che è utile considerare nel parallelo: molti osservatori dicono che una chiave della pace nordirlandese fu l’inclusione attiva delle parti locali, con consensi ratificati democraticamente. Ma nel caso proposto per Gaza, nel piano attuale manca un coinvolgimento reale e prolungato dei palestinesi nella definizione del percorso. Altro punto critico è la percezione della pace: in Irlanda del Nord il consenso popolare, formalizzato tramite referendum, fu fondamentale per la legittimità dell’accordo. A Gaza, l’accordo rischia di essere percepito come imposto dall’alto, con la partecipazione palestinese limitata a forme indirette. Senza un radicamento interno, la stabilità rimarrà fragile. L’Accordo del Venerdì Santo ha mostrato che la pace non nasce dall’imposizione, ma da un processo graduale di fiducia reciproca, istituzioni condivise e, soprattutto, disarmo dei gruppi armati in una fase successiva. L’inclusione politica di ex combattenti, pur limitata, ha consentito a individui e partiti di fare la transizione dalla violenza alla politica, evitando l’emarginazione che avrebbe potuto minare la pace. Nonostante le difficoltà, l’analogia con Belfast offre una lente di lettura preziosa: mostra l’importanza della gradualità, della supervisione internazionale, del coinvolgimento di elementi del passato che si vuole cambiare, e di strumenti economici e politici per creare fiducia. Come in Irlanda del Nord, anche a Gaza il processo sarà lungo, non lineare, e richiederà pazienza, flessibilità e un forte ruolo dei mediatori esterni.

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Tiziana Prezzo