Ehud Barak: “Se Trump resta determinato, l’accordo su Gaza ha possibilità di successo”

L’accordo raggiunto tra Israele e Hamas per la sospensione delle ostilità a Gaza sarebbe stato raggiunto soltanto attraverso la decisione di Donald Trump di imporlo, e la seconda fase di questa intesa avrà vita soltanto attraverso questa determinazione del presidente americano, ha detto ai microfoni di Sky TG24 Ehud Barak, premier israeliano dal 1999 al 2001, con una vasta carriera politica e militare alle spalle: leader laburista, ministro degli Esteri e della Difesa, capo di Stato maggiore e membro di una delle unità di élite dell’esercito israeliano. E soprattutto, negoziatore in una stagione di speranze, quando in Medio Oriente “lo spirito del tempo” era favorevole alla pace, si parlava di processo di pace e della possibilità di una soluzione: due popoli e due Stati. Nonostante due anni di drammatica violenza e sanguinoso conflitto a Gaza, ci ha detto Barak, queste, dopo la firma a Sharm el Sheikh di una prima fase di accordo per il cessate il fuoco, sono ore di speranza e “cauto ottimismo”. Nelle scorse ore si è parlato molto di pace, siamo per ora a una prima fase dell’accordo, con la liberazione degli ostaggi israeliani, quella dei detenuti palestinesi e un parziale ritiro dell’esercito israeliano da Gaza, ma pochi dettagli su una seconda fase? A che cosa potrebbe assomigliare? In realtà, siamo ancora nella prima fase, che ora sta per concludersi, probabilmente entro pochi giorni: questa è stata determinata dalla decisione di Trump di imporla a Netanyahu, l’ha dettata a Netanyahu. C'è stata una sorta di gesto per far sembrare che fosse stata un lavoro comune, ma in sostanza ha piegato Netanyahu come una bambola di gomma. Proprio come ha fatto nell’ultimo giorno della guerra dei dodici giorni con l’Iran , quando ordinò a Netanyahu di imporre ai jet israeliani, già in volo e carichi di bombe per colpire l’Iran, di fare marcia indietro e tornare alla base. E Netanyahu ha obbedito. Netanyahu non riesce a resistere a Trump. Quindi la domanda ora, per quanto riguarda la prossima fase, è se Trump — pur avendo tante altre questioni aperte, dall’Ucraina alla Cina, fino allo shutdown negli Stati Uniti — sarà determinato e capace di mantenere l’attenzione su questo tema a lungo termine. Se rimarrà determinato, esisterà una buona opportunità di riuscita. Perché né Netanyahu né Hamas… Hamas non può essere influenzato direttamente da Trump, ma i Paesi arabi cui non piace Hamas assieme a quelli che lo sostengono , tutti insieme hanno messo sotto assedio Hamas e Hamas non ha altra strada se non accettare. I prossimi passi sono questi: portare il più rapidamente possibile una forza arabo-musulmana composta da egiziani, giordani o emiratini e creare immediatamente un governo tecnico e una burocrazia palestinese, che già esiste con 50–60 mila persone. Probabilmente con l'aggiunta di altre duemila persone da Ramallah, dall’Autorità Palestinese, e iniziare la ricostruzione di Gaza, finanziata da Emirati, Arabia Saudita e Qatar. E costruire gradualmente una nuova forza di sicurezza. Israele impone due condizioni: 1. Nessun membro dell’ala militare di Hamas potrà far parte di alcun organo della nuova organizzazione. 2. Il ritiro definitivo sui confini avverrà solo dopo che tutte le tappe precedentemente concordate sulla sicurezza saranno raggiunte. Sembra semplice, ma serve la determinazione di Trump. Senza non funzionerà. Hamas sta creando fatti sul campo, con una serie di esecuzioni sommarie di rivali politici e militari, ancora prima che i mediatori inizino a negoziare la fase due, con un messaggio chiaro: qualcun altro può amministrare la Striscia ma è chiaro dove sia il vero potere. Che impatto ha questo sulla fase due? Questa non è la situazione reale. Questo è il motivo per cui ho detto che la forza arabo-musulmana dovrebbe entrare in gioco entro poche settimane, non mesi, poche settimane. Se arriva entro poche settimane, Hamas rispetterà . Hamas non può permettersi di attaccare gli egiziani, che letteralmente tengono aperta la bombola di ossigeno per loro, non osano sparare agli emiratini, che finanzieranno la ricostruzione con decine di miliardi di dollari nel corso di un decennio, probabilmente. Se diamo loro troppo tempo, forse ci ripenseranno, ma hanno già preso un impegno un anno fa, durante le trattative mediate da egiziani e altri, hanno capito perfettamente che non controlleranno più Gaza. Lo hanno capito. Lo hanno accettato durante le mediazioni arabe lontano dai riflettori. Naturalmente hanno insistito che non alzeranno bandiera bianca, non deporranno le armi, non saranno espulsi in altri Paesi, ma sanno che non governeranno più. Dovranno passare il testimone ad altri. E hanno accettato, non perché sconfitti militarmente da Israele nell’ultima fase della guerra . L’ultima fase a Gaza è stata totalmente superflua, perché Hamas era già stato sconfitta militarmente oltre un anno fa. A seguito di quella sconfitta, ci sono stati duri colpi a Hezbollah , l’occasione per distruggere la capacità militari siriane, che ha aperto la strada agli attacchi contro l’Iran . Avremmo potuto annunciare la vittoria mesi fa, ma Netanyahu non lo voleva perché avrebbe messo a rischio la sua permanenza al potere. Perché una volta finita la guerra, la Corte penale accelererebbe, e ci sarebbe la richiesta per un’inchiesta di Stato sugli eventi guidata da un giudice della Corte Suprema. Non è semplice per lui, quindi manipola… Nella mente di Hamas, Sinwar, il leader di Hamas, ora siede all’inferno guardando in altro tra le fiamme, e vede qualcosa cui non riesce a credere: Netanyahu che con le sue stesse mani si prende la responsabilità per Israele di trasformare la sconfitta militare di Hamas dell’anno prima in un grande successo politico e diplomatico, celebrato all’Assemblea generale recentemente e al summit di Sharm el Sheikh, dove tutti erano seduti al tavolo, tranne Israele. Hamas è rappresentata indirettamente lì da Qatar e Turchia, che lo fanno in modo piuttosto efficace, ma Israele è assente e questo è piuttosto pericoloso, perché Israele dovrebbe essere pronto a ogni tipo di negoziato, con il sostegno del resto del mondo che chiede a entrambe le parti di sedersi al tavolo per risolvere la questione palestinese. Detto questo, non possiamo accettare facilmente l’imposizione di uno Stato palestinese sopra la testa di Israele, senza nemmeno aver negoziato su confini, sicurezza, rifugiati, Gerusalemme e la fine del conflitto. C’è stata una pressione senza precedenti da parte dei leader arabi del Golfo, l’Egitto e della Turchia nei confronti di Hamas. La posizione araba e dei Paesi islamici è cambiata molto rispetto agli anni in cui lei negoziava con loro, e come? Quando ci abbiamo provato era una generazione fa, ora è irrilevante, da allora sono cambiate troppe cose. All’epoca c’era uno Zeitgeist, uno spirito dei tempi favorevole alla pace, come risultato della Prima Guerra del Golfo e della liberazione del Kuwait. Soltanto il re Hussein e Arafat non parteciparono alla coalizione, alla grande coalizione di Bush e Baker. Alla fine della guerra, loro chiesero di pagare un prezzo: il Segretario di Stato Baker li costrinse alla Conferenza di Madrid. Il 1992 divenne l’apertura di 17 anni di sostegno a un processo di pace, fino al 2009, passando per Oslo con Rabin e Peres. Perfino lo stesso Netanyahu promise loro la seconda città più antica dell’ebraismo, Hebron, e il 13%. E trovò un amico. Io non ho mai trovato un amico in Arafat, neppure Rabin. Netanyahu trovò un amico in lui. Anche Olmert ci ha provato, Sharon ci ha provato, io ci ho provato, ma nel 2009 tutto si chiuse. Oggi probabilmente, guardando a Sharm el Sheikh, si è aperta una nuova finestra di opportunità dopo la tragedia del 7 ottobre e i suoi effetti su Gaza. Forse entrambe le parti, e anche il resto del mondo, sono più interessate a risolvere il conflitto. È un’opportunità. Solo il tempo dirà se andrà a buon fine. Dipende dal successo dalla seconda fase, che ora è sul tavolo, e serve la determinazione americana e di altri attori per essere certi di far accadere le cose. Nel quadro complessivo, è possibile. Sono cautamente ottimista. Può accadere. Crede ancora nella soluzione a due Stati? È troppo presto per parlare subito di una soluzione a due Stati. L’altra parte non è ancora pronta. In Israele c’è ancora il trauma fresco del 7 ottobre, c’è ancora un grande dolore che avete visto nelle scorse ore alleviarsi, ci sono rabbia, sentimenti di frustrazione, perfino umiliazione e richieste di vendetta. Ma la realtà sta cambiando molto rapidamente sotto i nostri occhi, ed è promettente. Abbiamo ancora il problema delle dichiarazioni di alcuni importanti ministri israeliani che dicono che “non ci sono civili innocenti a Gaza”, “non bisogna fornire aiuti umanitari”, che “si devono radere al suolo città intere” o “evacuare due milioni di palestinesi in Somaliland o Indonesia”. Sono tutte idee ridicole e molto pericolose, che hanno lasciato un’impronta sull’opinione pubblica mondiale, come se Israele fosse sospettata di crimini di guerra. Abbiamo la responsabilità di istituire un comitato d’inchiesta nazionale per verificare che cosa ha portato al 7 ottobre, che cosa è accaduto, e che cosa è accaduto dopo fino a oggi. E dovremo fare tutto questo su nostra iniziativa. Se sono state infrante leggi internazionali e nazionali su come fare la guerra, dobbiamo essere certi che sia fatta chiarezza e che i colpevoli siano ritenuti responsabili. Solo se Israele farà tutto questo indipendentemente, Israele avrà una possibilità di evitare l’enorme pressione internazionale di portare israeliani davanti alla Corte dell’Aia, che è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Perché nel 2000 non si è arrivati a un accordo, quando si diceva che la bozza da lei mediata avrebbe garantito ai palestinesi l’intera Gaza, oltre il 90 per cento della Cisgiordania e uno Stato con Gerusalemme Est come capitale? Prima di tutto, non posso dirtelo con certezza. So il fatto. Il fatto è che io e il presidente Clinton proponemmo una proposta di vasta portata, contrariamente alla leggenda urbana secondo la quale cercammo di imporla ad Arafat, dicendogli: “Prendere o lasciare”. Non lo abbiamo mai fatto. Ho detto ad Arafat chiaramente di fronte a Clinton: “Puoi avere le tue riserve su ogni paragrafo di questo piano. Scrivile. Non ti chiediamo di ingoiarlo, di accettarlo così com’è. Ci aspettiamo che tu lo prenda come base per ulteriori negoziati”. E il fatto che lui l'abbia rifiutato e si sia deliberatamente rivolto al terrorismo è realtà. Non posso penetrare nella sua anima. Perché diavolo non era pronto ad accettarlo? Probabilmente pensava di essere questa figura storica del combattente per la libertà, quello che libera. Probabilmente aveva paura di affrontare le questioni quotidiane. Una volta che sei a capo di uno Stato, anche soltanto di uno Stato embrionale, devi occuparti di previdenza sociale, sanità, istruzione, fognature, sicurezza sociale. Probabilmente, non era il tipo di compiti che si sentiva pronto ad affrontare. Mi diceva sempre: "Sono il più grande generale, il più grande ingegnere del mondo". Allora gli dissi: "Signor Presidente, come ingegnere capisco”: era laureato in ingegneria. “Ma in che senso generale?” E lui rispose: "Non ho mai perso una battaglia importante". Secondo questo standard, anche tu sei un grande generale! . Era un personaggio un po’ particolare, ma probabilmente si identificava in un’idea che ha un fondo di verità: che le nazioni nascono nel sangue, non in sale di negoziazione climatizzate. E probabilmente pensava che senza questa fase di violenza non potesse fondare uno Stato, non potesse passare al capitolo successivo. Non lo so, ma è per questo che ancora oggi si dice: “È Arafat il responsabile del fallimento”. Noi proponemmo qualcosa che, metaforicamente, copriva più del 90 per cento di tutto ciò che poteva desiderare, e lo proponemmo soltanto come base per negoziare. Ci sono molte altre persone al mondo che dicono che Barak fu il responsabile, perché dissi, dopo il fallimento: “Non abbiamo un interlocutore, chiudiamo la porta”. Non è vero. Quello che dissi - dovevo riferire al pubblico israeliano – riportai soltanto un fatto. Dissi: “In questo momento, non abbiamo un partner in Arafat”. Non dissi che Arafat non poteva cambiare, di certo. Non dissi che qualcun altro non poteva cambiare. Non dissi che non c’era alcuna possibilità. A proposito della soluzione a due Stati non può essere proposta ora agli israeliani. Non ora. Deve essere un processo graduale che inizi con l’attuazione dell’accordo proposto da Trump. Quello dovrebbe essere il primo passo. E apre grandi opportunità, anche per l’ampliamento degli Accordi di Abramo, e per l’apertura di un corridoio economico dall’India agli Stati del Golfo, all’Arabia Saudita, a Israele, fino all’Europa. Tutte queste opportunità sono lì. Ma serve volontà politica per attuarle, e vedremo. Spero che possa accadere. Pensa che Israele abbia oggi in Cisgiordania o a Gaza un interlocutore, o quando pensa a un interlocutore pensa ai Paesi della regione di cui parlava prima? Non posso sostituirmi ai palestinesi. Ma guardando alla storia, al momento giusto, quando arriva il tempo, compaiono leader da entrambe le parti pronti a prendere decisioni dolorose. Dicevo sempre ad Arafat: “Le decisioni più difficili non saranno con me, ma con il tuo stesso popolo. Lo stesso vale per me. Le decisioni più dure, più dolorose, saranno con la mia opinione pubblica. Ma non sarà risolto in paradiso, ora tocca a noi esseri umani. Se falliamo, passeremo il problema ai nostri successori, e nulla cambierà. Nessuna valle, nessuna montagna, niente. L’unica cosa che cambierà sarà la dimensione del cimitero. E il tuo crescerà più velocemente del mio. Quindi pensaci. Trova il coraggio. Facciamolo. E se falliamo, questo non significa che dobbiamo continuare a fallire”. Alcuni dicono che Netanyahu non sia adatto a fare una vera offerta di pace, per via del suo passato in cui ne ha silurate molte. E probabilmente lo stesso vale per i palestinesi. Quindi dobbiamo aspettare. Ma una precondizione è attuare quell’accordo e trarne il massimo. E speriamo che questo, assieme allo Zeitgeist globale che spinge verso la pace, lo faccia accadere.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Ehud Barak: “Se Trump resta determinato, l’accordo su Gaza ha possibilità di successo”

Rolla Scolari