La Corea del Sud iperconnessa vieta lo smartphone nelle scuole

Da tempo la diffusione capillare di smartphone fa discutere sul versante del rapporto dei minori con le nuove tecnologie: movimenti nazionali e internazionali sempre più partecipati, come quello dell’autore Jonathan Haidt negli Stati Uniti, chiedono la messa al bando dei telefoni nelle scuole, e diversi Stati si stanno muovendo in questa direzione. Di recente a guadagnarsi i titoli delle cronache è stata la Corea del Sud, che ha compiuto un passo significativo nella regolamentazione dell’uso degli smartphone in ambiente scolastico, approvando a fine agosto una legge che vieta l’utilizzo di cellulari e dispositivi digitali durante le ore di lezione. Il provvedimento – che è il risultato di una deliberazione bipartisan del parlamento di Seul – entrerà in vigore a partire da marzo dell’anno prossimo, con l’inizio del nuovo anno scolastico. Il motivo dichiarato dalle autorità a corredo della misura è il contrasto alla dipendenza digitale e la tutela del diritto allo studio; non sorprende che a fare da sfondo al dibattito sia una società profondamente connessa come quella sudcoreana, dove le rilevazioni del Ministero dell’Istruzione parlano di un 37% di studenti delle scuole medie e superiori che dichiarano contraccolpi sul loro umore dovuti ai social media, mentre il 22% degli alunni mostra segni di ansia se privato dell’accesso ai suoi profili social. La Corea del Sud è uno tra i Paesi con la più alta penetrazione di smartphone nel tessuto sociale, con circa il 99% della popolazione online e il 98% in possesso di un telefonino. Il testo di legge approvato dal parlamento sancisce che l’utilizzo di dispositivi digitali è vietato durante le lezioni, con l’eccezione degli strumenti a fini didattici, i casi di emergenza e i piani di apprendimento per studenti con disabilità, che necessitano di strumenti di assistenza. La legge segna una svolta rispetto alle prassi in vigore, spesso regolamentate da circolari interne o regole scolastiche informali, e pone un fondamento giuridico più solido che faccia da base a cui attingere per la gestione del problema. La misura ha registrato un appoggio di larga parte della politica sudcoreana, e il provvedimento è passato con una maggioranza schiacciante . Una caratteristica fondamentale di questi dibattiti è la loro capacità di dividere anche il mondo scolastico: a Seul molti insegnanti e genitori hanno accolto con favore il provvedimento, è vero, ma altri – tra cui alcuni membri del sindacato dei docenti – temono che la nuova legge sia solo un intervento cosmetico che non affronta le cause profonde del disagio giovanile, come la pressione scolastica o il rapporto con l’altro sesso, spesso mediato proprio dai canali digitali. La svolta coreana si colloca in un contesto globale in mutamento repentino: in Paesi europei come Francia, Paesi Bassi e la stessa Italia esistono già misure restrittive sull’uso degli smartphone a scuola; in alcuni casi, come quello olandese, il divieto è già operativo per gli usi non didattici dello smartphone, con ampie eccezioni per bisogni educativi o disabilità. Nel nostro Paese, invece, l’uso in classe è formalmente vietato dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria, salvo casi di bisogni individuali o disabilità: è così fin dal 2007, ma recentemente le disposizioni ministeriali del ministro dell’Istruzione Valditara hanno allargato il campo del divieto agli usi didattici non autorizzati. Anche altri Paesi del continente stanno adottando regole analoghe: in Grecia, per esempio, è previsto che durante le lezioni i cellulari restino dentro gli zaini; in Lussemburgo, da quest’anno, nelle scuole superiori si richiede una separazione fisica dall’amato e odiato dispositivo; in Ungheria è stato introdotto un bando nazionale a settembre dell’anno scorso. Un’indagine dell’Unesco ha rilevato che oltre 60 Stati hanno misure simili, benché con modalità e applicazioni anche molto diverse fra loro. Tra le evidenze empiriche raccolte fin qui, secondo i dati registrati dalle Nazioni Uniti sembra che i divieti contribuiscano a ridurre le distrazioni in classe, benché non sempre efficaci se non adeguatamente applicati. In Italia, il dibattito è oggi alimentato anche da un vivace scambio intellettuale, dove due fronti contrapposti vedono rispettivamente lo smartphone come un agente del caos apprenditivo, e i suoi detrattori come neo-luddisti che agitano lo spettro dei dispositivi come capri espiatori a buon mercato. La Corea del Sud ha esteso a livello nazionale un divieto che in altre parti del mondo è già in vigore, ma che mai prima d’ora aveva assunto questa dimensione: quella dell’inquadramento giurisprudenziale nazionale di una pratica scolastica che era sempre stata gestita a livello locale. L’intenzione dichiarata degli anti-smartphone è tutelare benessere, rendimento scolastico e autodeterminazione educativa degli alunni: per capire se ci riusciranno, però, dovremo aspettare le prossime puntate di questa telenovela normativa.

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Davide Piacenza