Israele-Iran: come si è arrivati alla fragile tregua?

Il cessate il fuoco tra Israele e Iran annunciato dal presidente americano Donald Trump poco dopo la mezzanotte italiana ha colto di sorpresa leader e analisti che hanno guardato con attenzione alle dinamiche di quella che l’inquilino della Casa Bianca ha definito la “guerra dei dodici giorni”. I dettagli sulla tregua cominciata in maniera incerta, tra denunce israeliane di violazioni iraniane e minacce di raid di rappresaglia, e sulla conseguente de-escalation appaiono ancora tutti da definire, ma quel che è certo è che un canale di comunicazione indiretto tra Teheran e Usa sia stato aperto tramite il Qatar e sia da collegarsi alla risposta dell’Iran all’attacco subito domenica notte da parte dei B-2 statunitensi contro i siti nucleari di Natanz, Fordow e Isfahan. Diplomazie al lavoro Nella giornata di lunedì le diplomazie hanno lavorato in maniera febbrile su più direzioni. Teheran ha anticipato al Qatar la sua intenzione di lanciare un attacco simbolico alla base Usa di Al Udeid situata sul territorio del piccolo Paese del Golfo. L’annuncio ha avuto l’effetto di mettere in stato d’allerta le forze armate di Doha e quelle Usa presenti in loco consentendo la chiusura anticipata dello spazio aereo e la neutralizzazione di ogni possibile danno a un’infrastruttura peraltro già svuotata nelle giornate precedenti i raid di domenica. Al contempo, parallelamente, gli Usa accettavano come fatto compiuto l’azione di Teheran e rinunciavano a un’ulteriore escalation, separando dunque i propri obiettivi nella guerra da quelli di Israele, che nella giornata di lunedì ha pesantemente bombardato Teheran. Per Trump, la scelta iraniana di una risposta più simbolica che militarmente rilevante ha fornito una via d’uscita rispetto all’ipotesi di un più vasto coinvolgimento nel conflitto fortemente avversato dalla base più isolazionista e di destra del Partito Repubblicano e su cui non era entusiasta nemmeno in vicepresidente J.D. Vance. In quelle ore è maturata la proposta di cessate il fuoco che Washington ha sottoposto a Tel Aviv e, secondo quanto ricostruito dal New York Times, gli Usa avrebbero sottoposto a Doha perché la presentasse a Teheran. Il ruolo del Qatar Trump, ha ricostruito la testata, ha parlato direttamente con Tamim bin Hamad Al Thani, emiro del Qatar per chiedere la sponda dell’alleato di Washington, e in seguito il primo ministro di Doha, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, si è coordinato sui dettagli con l’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff e il segretario di Stato Marco Rubio per poi farsi portavoce di fronte all’Iran. L’iniziativa, secondo il New York Times, è maturata nella cerchia più stretta della Casa Bianca, dato che si parla del fatto che anche diversi alti funzionari di Washington sono stati colti alla sprovvista dall’annuncio di Trump dell’avvenuto accordo. Meno chiare sono le dinamiche che hanno portato l’Iran ad aprire, rapidamente, a una prospettiva di cessate il fuoco. Ricostruendo le evoluzioni politiche degli ultimi giorni, però, si nota la centralità diplomatica del Ministro degli Esteri Abbas Araghchi, che tra Ginevra, Istanbul e Mosca ha cercato sponde e contatti diplomatici su molti fronti e ha mantenuto un canale di interlocuzione con Witkoff anche dopo l’inizio dei raid israeliani. Il ruolo di Araghchi mostra il protagonismo nelle trattative del potere civile iraniano, meno colpito nei dodici giorni di guerra rispetto ai vertici dei Guardiani della Rivoluzione e alle strutture più propriamente vicine all’Ayatollah Ali Khamenei. Una finestra d'opportunità In questo contesto, Gli Usa hanno colto la finestra d’opportunità che, di fatto, la risposta iraniana e l’esaurimento del confronto diretto Washington-Teheran ha aperto. Ne è uscito un cessate il fuoco in cui, tutto sommato, tutti possono potenzialmente rivendicare qualcosa: Washington, ha sottolineato una fonte diplomatica al New York Times “ha attribuito agli attacchi militari statunitensi contro tre siti di arricchimento nucleare iraniani di sabato il merito di aver creato le condizioni per una discussione sul cessate il fuoco”. Netanyahu ha fatto suo il risultato di aver ridimensionato la proiezione militare dell’Iran, danneggiando gravemente il suo apparato atomico e il suo sistema missilistico e di difesa aerea, rafforzando dunque Israele. L’Iran, a conti fatti, non è stato costretto a cedere, ha mantenuto intatte le sue istituzioni e ha dimostrato che, nonostante la sua relativa fragilità, può sviluppare un livello di deterrenza non indifferente verso Israele. Certo, ogni parte in causa sconta anche degli scacchi strategici: la Repubblica Islamica ha subito gravi danni alle sue infrastrutture e alla sua catena di comando; Israele non ha a conti fatti azzerato le scorte di uranio dell’Iran né men che meno il regime; gli Usa si sono mossi a traino del loro alleato e non hanno esercitato la dovuta leadership verso Israele. Ma la sensazione è che tutti gli attori hanno colto l’occasione per trovare una via d’uscita a un conflitto che sembrava destinato a diventare un vero e proprio salto nel buio qualora si fosse prolungato. Le scosse di assestamento odierne mostrano che il percorso verso la pacificazione completa non sarà semplice. Del resto, la realtà dei fatti dice che fino a poche ore prima del suo annuncio l’ipotesi di un cessate il fuoco sembrava irreale. E che la sua concretizzazione cambia notevolmente le carte in tavola nel Medio Oriente anche grazie all’apporto di chi, come il Qatar, da tempo spinge per la diplomazia per frenare l’incendio che dal 7 ottobre 2023 sta consumando gli equilibri della regione, da cui tutti gli Stati dell’area hanno da perdere.

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