Nella testa di Trump: cosa può averlo spinto all'entrata in guerra con l’Iran

“Ora la pace, oppure sarà una tragedia”, Trump ha commentato l’attacco americano contro tre siti nucleari iraniani così, come un giocatore che spinge tutte le sue fiches sul piatto. Per l’Iran, invece, “la guerra comincia ora”. Quale meccanismo ha spinto il Presidente a ordinare i bombardamenti? Queste sono le ore in cui gli esperti si arrovellano parlando di strategie, piani militari e visioni a lungo termine. Fareed Zakaria, però, afferma che azioni e dichiarazioni di Trump negli ultimi giorni siano state dettate anche o soprattutto dalla FOMO, Fear of missing out: la paura di perdersi qualcosa, o di essere tagliati fuori da qualcosa che accade. Nell'era trumpiana in cui ogni giorno una nuova crisi sostituisce quella del giorno precedente, si fa fatica a tenere il passo degli eventi e delle dichiarazioni. È difficile, dunque, trovare il tempo per tornare indietro di qualche settimana e cercare, nel mare magnum delle esternazioni presidenziali, quelle frasi che possano contribuire a far luce su quanto sta accadendo. Mi ci sono messo d'impegno, però, e qualcosa ho trovato. Aprile 2025. Trump rilascia una lunga intervista a Time Magazine per i primi cento giorni di governo. La conversazione viene pubblicata il 25 del mese, ma risale a qualche giorno prima. Cito. "Si dice che lei abbia impedito a Israele di attaccare i siti nucleari iraniani", chiede Time. Trump risponde che non è vero. "Non li ho fermati. Ma non ho reso la cosa facile per loro, perché penso che possiamo raggiungere un accordo senza attaccare. Spero di farcela. È possibile che alla fine dovremo attaccare per impedire all'Iran di avere un'arma nucleare. Non ho facilitato le cose a Israele, ma non ho detto di no. Alla fine lascerei a loro la scelta, ma ho già detto che preferirei di gran lunga un accordo piuttosto che sganciare bombe". Il pezzo forte, però, arriva ora. "Ha paura che Netanyahu la trascini in guerra?", chiedono i giornalisti. "No. Potrebbe entrare in guerra, ma noi non ci faremo coinvolgere". "Se Israele entra in guerra gli Stati Uniti ne resteranno fuori?" "No, non ho detto questo. Mi avete chiesto se Netanyahu mi avrebbe trascinato dentro, come se ci andassi contro il mio volere. Potrei andarci del tutto volontariamente se non riusciamo a raggiungere un accordo. Se non lo raggiungiamo, sarò io a guidare la cosa". Eccovi servita la frase rivelatoria. Credo che quest'ultima, brevissima dichiarazione, contribuisca a spiegare il comportamento adottato dal Presidente negli ultimi giorni. "Sarò io a guidare la cosa". Persino dalla trascrizione dell’intervista si percepisce il fastidio di Trump di fronte all'ipotesi che qualcuno, fosse pure il premier israeliano, possa convincerlo a fare qualcosa senza che lui lo voglia. Ho detto spesso che con Trump non bisogna mai sottovalutare il fattore psicologico. Ora mi tocca ripeterlo. Il 4 giugno Teheran ha rifiutato la proposta di accordo avanzata da Washington. Fonti della Casa Bianca affermano che questo ha suscitato nel Presidente la convinzione che gli ayatollah non fossero seriamente intenzionati a raggiungere un'intesa. Quello stesso giorno Mark Levin, volto mediatico conservatore e falco interventista, ha pranzato con Trump alla Casa Bianca. Sembra che il Presidente sia rimasto molto colpito dalle parole di Levin, che avrebbe definito Teheran prossima a ottenere la bomba . La domenica successiva il Presidente si è riunito con i suoi collaboratori a Camp David, per un aggiornamento sulla crisi che si andava profilando. Il giorno dopo, lunedì, ha parlato al telefono con Netanyahu. Il New York Times ha dedicato un lungo e straordinariamente informato articolo ai giorni che hanno preceduto l'attacco contro l'Iran. Secondo il quotidiano "Trump è rimasto colpito dall'ingegnosità della pianificazione militare israeliana. Non ha preso impegni, ma dopo la telefonata ha detto ai consiglieri: penso che potremmo doverci schierare con lui". Giovedì è stato il giorno dell'attacco israeliano. La prima reazione americana è stata affidata a una nota del Dipartimento di Stato in cui si prendevano cautamente le distanze dall'iniziativa. Il comunicato era probabilmente già in ritardo rispetto ai ragionamenti del Presidente. Ancora il New York Times: "quando il Presidente si è svegliato venerdì mattina, il suo canale televisivo preferito, Fox News, trasmetteva ininterrottamente immagini delle conseguenze di quello che veniva descritto come il genio militare di Israele. E Trump non ha resistito a prendersi un po' di merito. "Nelle telefonate con i giornalisti, ha iniziato ad insinuare di aver avuto un ruolo maggiore di quanto la gente pensasse". Ricordatevi quella frase fatidica pronunciata ad aprile: "sarò io a guidare la cosa". Il giorno dopo, sabato 14 giugno, è andata in scena a Washington D.C. la parata militare voluta dal Presidente. Quella che segue è una semplice illazione, dunque andrebbe presa con le molle, ma credo che l'esito della kermesse abbia avuto un ruolo nelle riflessioni di Trump sul conflitto. Quel giorno, un sabato, a Washington c'era un'afa infernale, ma le previsioni meteorologiche annunciavano tempeste di tuoni proprio negli orari interessati dall'evento. Come ho raccontato su Sky tg24, quattro o cinque ore prima della parata una nutrita fila di persone si allungava da Capitol Hill fino quasi al Washington Monument: la folla all'esterno dei cancelli, però, non ha avuto come conseguenza un altrettanto consistente partecipazione sugli spalti. Molti, stanchi di aspettare, hanno abbandonato la fila prima di entrare, altri sono stati spaventati dalle nubi che si addensavano sopra il National Mall, altri erano semplici manifestanti accorsi per sfruttare l'esposizione mediatica garantita dall'evento e perorare la propria causa. Con una decisione all'apparenza discutibile, il Secret Service ha deciso di chiudere i cancelli alcuni minuti prima che l'evento avesse inizio, costringendo qualche decina di persone ad andarsene dopo aver passato ore in coda. Qualunque sia il motivo, l'immagine offerta dagli spalti semivuoti è stata desolante. Il governo parla di 250.000 spettatori, ma è quasi certo che siano stati meno anche dei 200.000 stimati dal National Park Service. Il Tonight Show ha definito la parata "patetica". "Ti accorgi che è andata male", ha scherzato Jimmy Fallon, "quando realizzi che la persona che si è divertita di più è stata Melania". La satira fa il suo lavoro, e nel caso di Jimmy Fallon lo fa anche bene, ma diverse fonti confermano che lo stesso Donald Trump è rimasto profondamente deluso e ha indirizzato la propria frustrazione nei confronti del Segretario alla Difesa Pete Hegseth. La rabbia del Presidente non sarebbe dovuta tanto alla scarsa partecipazione, quando al tono generale dell’evento. Michael Wolff, giornalista solitamente bene informato su quanto avviene nei corridoi della Casa Bianca, ne ha parlato con Nowthisimpact: “secondo Trump i soldati si pavoneggiavano, si divertivano, salutavano, insomma se la stavano godendo; mostravano un volto amichevole invece di un volto militaresco”. Formalmente, la parata era stata organizzata per celebrare i 250 anni delle forze armate americane: una festa, dunque, ed è comprensibile che i soldati la vivessero come tale. Per Trump, però, era qualcosa di diverso, un modo per mostrare al mondo i muscoli degli Stati Uniti. Anzi, i muscoli del “mio esercito”, come dice a volte il Presidente con un’espressione forse innocua, forse rivelatoria. “Credo volesse qualcosa di più minaccioso”, ha aggiunto Wolff, “qualcosa che dicesse a chi guardava: quella che sfila è la più sbalorditiva macchina da guerra al mondo, e potrebbe essere rivolta contro di te”. In fondo parliamo di un uomo che nel 1990, in un’intervista a Playboy, approvò il comportamento del governo cinese in piazza Tiananmen perché lo vedeva come una potente dimostrazione di forza. Nel comportamento di Donald Trump c’è sempre quest’ansia di essere il martello e mai il chiodo, una brama di imporsi velata un senso di inadeguatezza. "Sarò io a guidare la cosa". Il Presidente non è disposto a farsi guidare da nessuno, e neppure a dare l’impressione di farlo. Negli ultimi giorni ha smentito più di una volta la Direttrice dell’Intelligence Nazionale – nominata da lui - che sulla base delle informazioni in mano alle spie americane aveva definito l’Iran ancora piuttosto lontano dal ruolo di potenza nucleare. La posizione di Tulsi Gabbard, nota per l’atteggiamento morbido nei confronti di diversi governi autocratici, fino a poco tempo fa era la stessa di Trump. È lui che ha cambiato idea, non lei. Ma Tulsi Gabbard, secondo il Presidente, “si sbaglia”. E comunque “quello che dice non mi interessa”. La svolta di Trump non lo allontana solo dalla sua stessa intelligence, che comunque aveva screditato già nel primo mandato, ma anche da quella parte consistente del popolo MAGA che lo ha votato perché stanca di vedere i soldati americani impegnati lontano da casa. Per Trump, però, tenere gli Stati Uniti fuori dai conflitti è un mezzo, non un fine. Come ha scritto David A. Graham sull’Atlantic “Sebbene possa essere titubante riguardo al coinvolgimento americano all'estero, Trump ama le dimostrazioni di forza. Ne vede una negli attacchi di Israele all'Iran e vuole essere coinvolto nell'azione”. Il risentimento di Trump, dice Graham, non è indirizzato verso gli interventi militari, né verso l’intelligence, ma “verso qualunque cosa o persona sia intenzionata a frenare i suoi capricci”.

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