Usa, la base Maga contro l’intervento in Iran: Trump tra due fuochi

Gli Usa si uniranno alla guerra contro l’Iran al fianco di Israele? La domanda si fa sempre più pressante dal momento che Donald Trump ha aperto all’ipotesi di un intervento militare contro Teheran e mentre gli Stati Uniti sembrano rafforzare la presenza di risorse nella regione, tra cui velivoli per il rifornimento in volo da utilizzare se i loro caccia fossero coinvolti nel conflitto. Schierati caccia e portaerei, Centcom pronto per colpire l’Iran Da un lato, il dispositivo militare americano è in pieno movimento e in concentrazione sul Medio Oriente. Gli analisti militari e gli studiosi di questioni strategiche mostravano nei giorni scorsi diversi trend chiari: l’ampia concentrazione di aerocisterne decollate dal territorio americano, ritenute fondamentali per appoggiare eventuali attacchi compiuti da caccia decollati da portaerei o da bombardieri strategici B-2 partiti direttamente dal suolo Usa, è stata rilevata con attenzione. The Aviationist ha dato conto di un rischieramento nell’area di Centcom, il comando Usa per il Medio Oriente, di caccia F-22 e F-35 operativi tra Spagna, Regno Unito e Grecia. Pete Hegseth, capo del Pentagono, ha concesso a Erik Kurilla, comandante di Centcom, tutte le risorse aggiuntive di cui ha fatto richiesta e Politico.com nota che tra queste è da segnalare anche una seconda portaerei la Uss “Nimitz”, in aggiunta alla “Carl Vinson” già schierata nella potenziale area di operazioni. Dall’altro Trump alterna minacce e spinte durissime contro l’Iran a dichiarazioni più dubitative, lasciando intendere che una decisione finale non è ancora stata presa. Nei giorni scorsi è passato rapidamente, mano a mano che l’offensiva israeliana contro il nucleare, le infrastrutture militari e le città iraniane prendeva piede, dal chiedere a Teheran il ritorno al negoziato a pretendere la “resa incondizionata” della Repubblica Islamica e la sua totale rinuncia al programma nucleare. Il dilemma di Trump Nella giornata di ieri, Trump ha smentito le dichiarazioni di Tulsi Gabbard, capo dell’intelligence statunitense, che a marzo aveva dichiarato al Congresso che i servizi segreti Usa escludevano l’ipotesi che Teheran stesse perseguendo la ricerca di un’arma atomica rilanciando il programma nucleare ufficialmente sospeso nel 2003. Inoltre, il presidente ha dichiarato che Washington sa dove si nasconde l’Ayatollah Ali Khamenei, sostenendo le minacce di Benjamin Netanyahu circa una possibile eliminazione della Guida Suprema. Parlando dal prato della Casa Bianca, però, oggi Trump ha detto che “nessuno sa cosa farò”, addossando sull’Iran le responsabilità di un presunto rifiuto al negoziato che avrebbe reso inevitabile l’attacco. Il New York Times ieri riferiva di una grande incertezza nel National Security Council circa la volontà effettiva di scendere in campo, e su Trump pesa il grande dilemma sulle conseguenze politiche di un’eventuale scelta favorevole all’intervento. Ad oggi, il capo di Stato Usa è tra due fuochi: nel Partito Repubblicano molti falchi interventisti come l’influente senatore Lindsey Graham e l’ambasciatore in Israele Mike Huckabee spingono perché gli Usa si uniscano a Israele e completino il vecchio obiettivo dell’obliterazione del nucleare iraniano, o addirittura del regime change, che solo Washington può permettere a Tel Aviv di perseguire fino in fondo. Al contempo, però, la base populista e meno conservatrice in senso tradizionale del Grand Old Party, vicina al movimento Maga, critica l’ipotesi dell’intervento e si prepara a rinfacciare a Trump il tradimento della promessa da lui espressa sulla volontà di non iniziare conflitti all’estero. Dall’influente anchorman Tucker Carlson a molti deputati del movimento Maga, sono già partiti rumorosi distinguo dalla posizione del presidente. L’ambiguità di Vance Si segnala, a tal proposito, l’insofferenza del vicepresidente J.D. Vance, che in un lungo post su X ha definito “coerente” la volontà di Trump di “non voler, da dieci anni, un Iran nucleare” ma si è anche sfilato circa la prospettiva di un intervento. Trump, ha scritto Vance, “potrebbe decidere di dover intraprendere ulteriori azioni per porre fine all'arricchimento iraniano: si tratta di una decisione che spetta in ultima analisi al presidente”, ha fatto notare l’ex senatore dell’Ohio aggiungendo però che “la gente ha ragione a preoccuparsi dei coinvolgimenti dell’America all'estero” dopo un quarto di secolo di politiche all’estero definite “idiote”. Vance è l’emblema della nuova generazione di repubblicani, meno legati all’interventismo all’estero e isolazionisti, e a ottobre, poco prima della vittoria elettorale di Trump, in riferimento all’ipotesi di un appoggio a Tel Aviv ha detto che “a volte gli interessi di Usa e Israele non si sovrappongono”, aggiungendo di “non volere la guerra con l’Iran”. Otto mesi dopo, la partita rischia di cambiare radicalmente, mentre Trump sarà chiamato a scelte scomode. Seguirà l’interventismo anti-iraniano delle frange neoconservatrici del suo partito, allineandosi all’alleato di ferro Netanyahu o presterà ascolto a chi, nel movimento che lo sostiene, rifiuta categoricamente ogni forma di interventismo? La risposta è in mano alla Casa Bianca, mai quanto oggi posta di fronte a un momento della verità, all’inevitabile necessità di determinare quale sia l’interesse nazionale che Trump troppo a lungo ha fatto coincidere col proprio. Dalla decisione del presidente per la pace o la guerra con l’Iran può dipendere molto dell’esito del conflitto, della capacità di Tel Aviv di raggiungere i suoi obiettivi, della stabilità mediorientale e, in definitiva, della linea politica del Trump 2.0. Per i cui futuri equilibri questa crisi è un decisivo banco di prova capace di influenzare molti altri scenari.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Usa, la base Maga contro l’intervento in Iran: Trump tra due fuochi