Trump in Medioriente, Pedde: "Agli Usa manca una strategia complessiva"

Business, business, business. L’obiettivo del tour mediorientale di Donald Trump è ben riassunto dal neo-inviato per le partnership globali, Paolo Zampolli. La visione di the Donald, del resto, è chiara: “Peace to Prosperity”, come ha ribattezzato il piano di pace per la questione israelopalestinese e che passa attraverso – appunto – una crescita economica che porta, a sua volta, la pace. Fondata o meno, è una visione che però contrasta con la realtà. Almeno quella mediorientale, che invece ha una forte componente ideologico-religiosa. Lo conferma il direttore dell’IGS , Nicola Pedde, che parte proprio dalla mancata tappa di Trump nello Stato Ebraico. Uno smacco, forse, nei confronti di Netanyahu, soprattutto dopo la mano tesa a Hamas e all’Iran. Aperture che potrebbero segnare una frattura con lo Stato ebraico? Sicuramente Israele resta un alleato strategico per gli Stati Uniti. Ma rimangono alcune divergenze, e alcune prerogative dell’amministrazione Netanyahu sono in netto contrasto con gli obiettivi dell’amministrazione Trump nella regione. Obiettivi sono per così dire “evolutivi”, che l’amministrazione Usa cerca di cogliere senza una strategia regionale di fondo. Quello che manca in questo momento a Washington è una visione unitaria di che cosa gli Stati Uniti intendano ottenere in termini di politica estera e di strategia nella regione. Il trattare direttamente con Hamas può essere sicuramente un altro ostacolo… È talmente pragmatica l’amministrazione in questo momento che, se trattare direttamente con Hamas risultasse fattibile, potesse portare dei risultati concreti, non avrebbe problemi a rifiutare, almeno concettualmente, l’idea. È una politica che si basa molto sul sensazionalismo, sulla necessità di portare a casa dei risultati concreti che possono essere poi spesi politicamente per dimostrare che effettivamente questa è l’amministrazione di rottura, che riesce a cambiare le dinamiche e le sorti dell’America. Qualsiasi cosa si collochi all’interno di questa matrice di fatto diventa possibile. In quest’ottica si può parlare di politica degli annunci? Sì, assolutamente. Per certi aspetti ricorda quello che sta succedendo con i russi, no? Grandi aperture, grandi annunci: “In 24 ore risolviamo tutto”. Poi, di fronte ad un interlocutore che è molto più pragmatico e calcolatore di quanto non sia lui… il rischio è di avere, sì, dei risultati immediati, ma che nel concreto non vanno a risolvere nessuna delle grandi questioni di sicurezza internazionale che lui vorrebbe idealmente risolvere. E questo è il grande rischio con l’Iran. Che è interessato a fare un accordo, perché la leadership ritiene sia l’ultima finestra per poter alleggerire le sanzioni, e lui gli sta offrendo questa opportunità. Poi però come stanno gestendo il negoziato è quanto di più disorganico possibile: basti vedere i messaggi che ha dato Witkoff, che hanno fortemente confuso gli iraniani: prima gli ha detto che avrebbero accettato un arricchimento alla soglia del 3,67%, poi si sono ripresentati alla riunione successiva dicendo che il programma doveva sparire completamente… La conferma dell’approccio “business maker”. Che però in questo contesto è messo alla prova. Sì, è un limite molto forte. Perché la parte economica non può essere centrale nella definizione degli accordi politici. Però Trump insiste su questo. Se vede anche il commento che ha fatto sulla revoca delle sanzioni alla Siria, tutto ruota intorno al fatto del voler rivedere prosperità e ricchezza. E, sì, tutti ci auguriamo che la Siria torni ricca e prospera, ma non è questa la priorità. In questo momento c’è un problema di stabilità politica, dei diversi gruppi etnici e confessionali. Mentre lui tende a riportare tutta la narrativa del suo intervento sul risultato economico, che è una forte limitazione in termini di calcolo strategico. Anche perché in Medioriente, come dire, il “driver” economico è sì importante, ma c’è anche – se non soprattutto - quello ideologico. Assolutamente sì ed è proprio per questo che lì vengono al pettine un po’ dei nodi che in questo momento stanno dividendo la politica americana da quella israeliana. Gli israeliani hanno una visione strategica, che possiamo condividere o meno, criticabile sotto molti aspetti, ma c’è un disegno di visione strategica. Gli Stati Uniti, invece, stanno gestendo queste relazioni senza considerare nel modo più assoluto la visione israeliana. Lo stesso negoziato con l’Iran rappresenta l’antitesi di quello che è il disegno strategico regionale di Israele, che vede nell’Iran il nemico numero uno, la cosiddetta “testa del serpente” da tagliare. E invece ora il suo principale alleato gli dice: “No, fermi tutti, faccio l’accordo con loro, perché devono essere prosperi e nostri alleati”. E questo è un messaggio che a Tel Aviv non può non incontrare, in questa amministrazione, una forte opposizione. In questo scenario è difficile prevedere degli scenari. Forse sì, ma sono tutti molto settoriali, proprio per questa limitatezza di visione complessiva. Perché è difficile individuare uno scenario di politica estera americana, dove ogni azione sembra essere a sé stante. Il rapporto con Israele è parte di un di un circuito chiuso, quello con l’Iran è, a sua volta, un altro circuito chiuso, e così via dicendo con la Siria, con l’Arabia Saudita, con i paesi del Golfo. Quindi, possono esserci dei risultati, ma è difficile vedere un disegno unitario. Il Medio Oriente è in una fase di evoluzione dei rapporti politici talmente critica da non poter prescindere da una visione unitaria. E perdere una visione regionale che è costituita anche da questo tipo di relazioni può essere nel breve, ma anche nel medio periodo, un grosso problema per gli Stati Uniti.

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