The Eyes of Gaza, il diario di Plestia Alaqad: "Io costretta a lasciare la mia terra"

Dopo oltre un anno e cinque mesi di Guerra in Medioriente, la stampa internazionale non può ancora entrare a Gaza. Tra i giornalisti palestinesi che da ottobre 2023 hanno iniziato a raccontare la guerra, c'è la 23enne Plestia Alaqad, nata e cresciuta a Gaza. I suoi video, con elmetto e giubbotto antiproiettile con scritta press, hanno fatto il giro del mondo. Un vero e proprio diario pubblicato via social che è diventato poi un libro "The Eyes of Gaza", edito da Pan Macmillan. Qual è la sua paura più grande? Quando sei a Gaza, non hai tempo per provare emozioni. Non hai nemmeno tempo per avere paura, per piangere, per essere felice. Il tempo semplicemente passa e tu sei impegnato a sopravvivere. Ma la cosa che più mi spaventava quando ero lì - e che continua a terrorizzarmi - era perdere le persone che amo. Ero sempre negli ospedali a fare reportage. Sentivo tutto il tempo il suono di bombe, sirene e ambulanze. E ogni volta che arrivava un’ambulanza e aprivano le porte, io guardavo con paura al suo interno, pensando: sarà un amico? Un parente? Uno dei capitoli del libro si intitola “Come si sopravvive a un genocidio”? Ha trovato una risposta a questa domanda? Penso che assistere a un genocidio non sia qualcosa che si possa superare e basta. È qualcosa con cui impari a convivere, soprattutto considerando che, mentre stiamo parlando, c’è ancora un genocidio in corso a Gaza, e ogni giorno che passa, bambini, donne, uomini, anziani continuano a essere uccisi. Cosa ritiene che manchi nella narrazione sulla guerra a Gaza? Quello che secondo me manca sono i particolari della vita di tutti i giorni, le storie delle persone. Ci sono molte domande che le persone si pongono, ad esempio: dove si dorme a Gaza? Nelle tende, ma non sono sufficienti per tutti. E quando piove e l’acqua entra nelle tende, cosa fanno? Queste difficoltà quotidiane sono importanti perché sono ciò che umanizza le persone. Ho molti amici e parenti che sono a Gaza e vivono nelle tende. Quando era inverno e pioveva, le tende si allagavano, quindi dicevano: "Ok, andremo in una scuola". Restavano un paio di giorni lì e poi si trasferivano negli ospedali, ma non c’era spazio sufficiente. Smetteva di piovere, ricostruivano le tende e così via. Quindi le difficoltà non finiscono mai. Ogni giorno ce n’è una nuova. È davvero difficile in questo momento. Per questo è importante continuare a parlare delle persone che sono lì, sensibilizzare e fare attivismo in vari modi. Che cosa ha provato quando ha dovuto lasciare la sua terra? Lasciare Gaza non è mai stata una scelta. Dico sempre che è stato uno sfollamento forzato, la Nakba del 2023 è stata una continuazione della Nakba del 1948. I miei nonni furono costretti a lasciare la Palestina nel 1948, e ora la mia famiglia e io siamo stati costretti a lasciare Gaza nel 2023. Dico "costretti" perché quali scelte avevamo? O restavi e venivi ucciso, diventando una delle 50mila vittime, oppure eri costretto ad andartene e a cercare un nuovo posto nel mondo. Ma personalmente mi considero fortunata, perché sono tra quelli che hanno potuto lasciare Gaza, non tutti hanno la possibilità di farlo. I confini sono chiusi. Gli aiuti non stanno arrivando. Non c’è aiuto umanitario che entri a Gaza e non puoi semplicemente andartene quando vuoi. Devi avere, ad esempio, un doppio passaporto e pagare una certa somma di denaro, oppure il confine è chiuso. Tornerà mai a Gaza? La Gaza in cui vorrei tornare non esiste più. Quindi anche se tornassi, non riconoscerei la nuova versione, il nuovo volto di Gaza. Ho sempre sognato una Palestina libera, ma ora tutto ciò che riesco a desiderare è un cessate il fuoco reale. Non voglio svegliarmi ogni giorno con l’angoscia di sapere se i miei amici e la mia famiglia che sono ancora a Gaza siano vivi o non ce l’abbiano fatta.

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