Siria, padre Fadi racconta il massacro degli alawiti: "Ho visto cose orribili"

A Baniyas non c’è più nulla da distruggere. Carcasse di automobili, edifici che ancora bruciano, vetrine dei negozi crivellate dai proiettili. E sulle strade decine di cadaveri abbandonati. "La situazione è drammatica, purtroppo non ho molta copertura, spero riesca a sentirmi…". Cade la linea, ma padre Fadi Azar, parroco della chiesa del Sacro Cuore di Gesù a Latakia, fa fatica a trovare le parole. In questa regione costiera nel nord est della Siria, dove vive la minoranza etnico-religiosa degli alawiti, un tempo élite del Paese, l’esercito governativo ha represso nel sangue un’insurrezione tentata da gruppi fedeli a Bashar al-Assad, l’ex presidente deposto da poco più di tre mesi. A pagarne le conseguenze sono stati soprattutto i civili, uccisi a migliaia nelle piccole frazioni affacciate sul mare: rastrellamenti, esecuzioni sommarie, anche di donne e bambini. Complicata la conta delle vittime, l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ne riporta oltre 1400, ma se ne temono molte di più. I social sono invasi da filmati con file di cadaveri ammassati, soldati che ridono mentre cavano gli occhi a corpi inermi o schiaffeggiano anziani caricati su dei camioncini. Uomini armati di Kalashnikov e mossi dall’odio per una fazione che costituisce l’11% della popolazione, ma che è stata spina dorsale della dittatura cinquantennale degli Assad. Jihadisti sono giunti da Damasco e da altri Paesi, i più violenti non sarebbero neanche arabi, ma uiguri e ceceni, che considerano il nuovo corso del comandante Abu Muhammad Al-Jolani, ora noto con il nome da civile di Ahmed Al-Sharaa, troppo moderato, un tradimento dell’islamismo. L’inferno di Baniyas "Hanno ucciso per identità, in maggioranza alawiti e anche alcuni cristiani. Sei a Latakia e tre a Baniyas, fra cui due giovani fidanzati, trucidati per strada", racconta il frate francescano palestinese, che ha raggiunto questo sobborgo per soccorrere i pochi sopravvissuti. "Molti non possono tornare nelle loro case, perché sono state rase al suolo. Stiamo visitando famiglie per portare aiuti, acqua, cibo, abbiamo un permesso del governo. Tanti per paura non escono dalle abitazioni, difficilmente ci aprono la porta. Ho visto cose orribili". La comunicazione si interrompe di nuovo e riprende pochi minuti dopo. "Stavo parlando con alcuni abitanti. Mi hanno raccontato che i miliziani hanno preso le loro auto, una l’hanno distrutta e data alle fiamme. È una guerra etnica, ma questa povera gente non c’entra". Chi è riuscito a salvarsi è scappato dai grandi centri e si è nascosto nei villaggi. Più di ottomila alawiti avrebbero trovato riparo nella base aerea russa di Hmeimim, a est di Latakia, costruita nel 2015 in occasione dell’intervento di Mosca nella guerra civile al fianco del regime di Assad. "Abbiamo aperto le porte ai residenti che cercano di fuggire dai pogrom", ha dichiarato ai giornalisti la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. "Il nostro esercito ha accolto quasi novemila persone, soprattutto donne e bambini". Tende e rifugi di fortuna sarebbero stati costruiti anche sulla pista di atterraggio. Al Sharaa istituisce una commissione d’inchiesta per punire i miliziani Le operazioni militari sono concluse, il terrore resta. Perché gli stessi siriani non sanno più di chi fidarsi. "Adesso la polizia ha riportato un po’ di sicurezza, ma la gente ha paura", continua padre Fadi. Intervistato dall’agenzia di stampa Reuters, il presidente ad interim Al-Sharaa ha dichiarato che le violenze sulla minoranza alawita mettono a rischio il piano di riunire la Siria. "Abbiamo combattuto per difendere gli oppressi e non accetteremo che venga versato sangue ingiustamente. Non perdoneremo i responsabili, nemmeno tra le persone a noi più vicine", ha affermato, prima di istituire una commissione d’inchiesta per punire chi si è macchiato del sangue di innocenti. Ma questi massacri sono il segnale che la nuova leadership non riesce a tenere a bada le frange più estreme. "Le persone hanno sofferto abbastanza, dopo 14 anni di guerra civile. Non entro in discussioni politiche, come religioso do voce a tutti quelli che non possono parlare, che non hanno soldi per mangiare". E sono tantissimi. Secondo le Nazioni Unite, quasi il 90% della popolazione si trova sotto la soglia della povertà, lo stipendio medio è di 20 dollari al mese, neanche uno al giorno. I siriani erano 21 milioni nel 2011, durante la guerra in 6 milioni hanno lasciato il Paese, altrettanti sono sfollati. "Noi cerchiamo di aiutare chiunque abbia bisogno, ospitiamo famiglie nel nostro convento – conclude padre Fadi –, ma la comunità cristiana non vede stabilità. Ci implorano di aiutarli a scappare e chiedono al Vaticano di intervenire in questo momento difficile". Il governo di transizione, nel frattempo, cerca di ricucire le varie forze armate presenti sul territorio e promette di essere inclusivo. Il primo passo in questa direzione lo ha fatto Al-Sharaa, firmando l’accordo con i curdi dell’Ypg , che saranno così integrati nell’esercito di Damasco e getteranno le armi nel nord est, dove sarà costruito un avamposto militare turco. Il secondo è stata la firma della dichiarazione costituzionale. Un testo di quarantatré articoli, che conferma l’Islam come religione del Capo dello Stato e fonte suprema del diritto, ma stabilisce anche il rispetto di diritti di libertà di tutti i cittadini, donne comprese, e delle minoranze. Il futuro resta incerto, intanto a Latakia si continua a morire. "Sabato una grossa esplosione in un edificio vicino alla nostra chiesa ha ucciso sedici persone, ferendone altre diciotto. Ora mi scusi, ma dobbiamo rientrare, prima che la strada diventi pericolosa".

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