Sanità pubblica, le cause e le possibili soluzioni della crisi. L'intervista

È una specie di epidemia. Non sanitaria, ma dei servizi sanitari pubblici. E non è detto che sia meglio. È l’aria che tira in diversi Paesi europei, a partire dal nostro. Le cause si sono individuate, sulle soluzioni si sta ancora lavorando. Un contributo è arrivato da un bel po’ di belle teste, con carriere lunghe e ricche, che si sono ritrovate per un seminario all’Accademia dei Lincei su “La crisi dei servizi sanitari universalistici”. Cominciano da noi. Negli ultimi due decenni il Servizio Sanitario Nazionale ha mostrato segni di progressivo malfunzionamento. È divenuto sempre meno sistema e rischia di diventare, invece, semplicemente la somma di singole parti, male e poco connesse fra loro: una situazione in cui i difetti di ogni parte impattano negativamente sulle altre. E quel che è peggio è che tutto ciò mina il principio dell’universalismo che è alla base del SSN. In Italia il valore del Fondo Sanitario Nazionale, basato sulla fiscalità generale, è sostanzialmente inferiore alla percentuale di PIL investita nella maggior parte dei sistemi sanitari europei che si fondano sui principi di solidarietà e giustizia distributiva, anche se l’Italia ha la più alta prevalenza di anziani in Europa . Ed è per questo che a una situazione di sofferenza del servizio sanitario pubblico corrisponde un incremento della spesa privata, che ammonta a 41 miliardi di euro all'anno per l'assistenza sanitaria , contro i 136 miliardi per l’assistenza sanitaria pubblica. Altro che universalismo: la spesa sanitaria privata è infatti fortemente disomogenea tra le regioni italiane . E questo significa che chi può si cura, chi non può rischia di più. “Le diseguaglianze sociali sono un problema che si sta ampliando in tutti i Paesi e in particolare in Italia - racconta il Prof. Paolo Vineis, coordinatore del seminario dell’Accademia dei Lincei -. Dati recenti sulla mortalità per cancro, in particolare, mostrano che circa un terzo delle morti da tumore in Europa sarebbe evitabile negli uomini, e un sesto nelle donne, qualora la mortalità delle classi economicamente svantaggiate fosse la stessa di quelle più avvantaggiate. Molti dati suggeriscono che a fronte di un sottoutilizzo delle strutture sanitarie da parte delle classi sociali svantaggiate vi è un sovrautilizzo da parte di quelle più avvantaggiate". Professore, qual è lo stato di salute del nostro servizio sanitario nazionale? Possiamo dire che è mediamente buono. E infatti spesso le persone si sorprendono che con una spesa in relazione al PIL relativamente bassa, lo stato di salute sia così buono. Ci sarebbero molte considerazioni da fare. Cominciamo dalla prima, Professore. Dico soltanto questo, e cioè che se è vero che lo stato medio di salute è buono, ci sono grandi disuguaglianze nella salute, disuguaglianze sociali e tra le regioni. Partirei dal Sud che per quasi tutti gli indicatori va peggio. Anche indicatori relativi agli stili di vita, per esempio l'obesità: è molto più frequente al Sud che al Nord. Ci sono delle differenze abbastanza clamorose. E poi ci sono problemi di organizzazione del servizio sanitario, di spesa e di efficienza. Cosa servirebbe? Cosa è necessario fare per arginare questa situazione? Secondo il professor Garattini ci vuole una rivoluzione culturale nel nostro Paese a favore della prevenzione, perché, per esempio, potremmo prevenire almeno il 50% dei casi di diabete, forse anche di più, ma anche tantissime malattie cardiovascolari, tumori e così via. Si dovrebbe lavorare di più sulla prevenzione primaria. Intendo gli screening, ma non solo. Bisogna innanzitutto intervenire sugli stili di vita e sull'ambiente, meno inquinamento atmosferico, alimentazione migliore, più sana. Dovremmo aderire alla dieta mediterranea anziché importare stili alimentari dall’estero che prevedono il consumo di cibi ultra processati. Quindi la prevenzione è cruciale. Ma c’è anche un altro tema cruciale, quello dell'appropriatezza che confina con il problema dello spreco. Appropriatezza vuol dire che molte prestazioni non dovrebbero essere proposte. È qualcosa di leggermente diverso dallo spreco, perché le prestazioni inutili possono anche essere dannose; quindi, non è soltanto un eccesso di spesa, cioè un eccesso di erogazione da parte del servizio sanitario. Avete delle cifre? Quali sono i numeri? È difficile fare una stima precisa, perché dipende dai settori, però normalmente si dice che circa il 25% delle prestazioni che vengono prescritte è inappropriato, ma le cifre vanno da poco sopra lo zero fino al 90%. Ma aldilà delle cifre, dobbiamo parlare dei problemi organizzativi che ricadono sul sistema e sui pazienti, e di conseguenza anche di eventuali danni. Il caso più clamoroso è quello dello screening per i tumori della tiroide che è ben conosciuto. Pensi che in 10 anni nel Sud Corea l'incidenza di cancro della tiroide è aumentata vertiginosamente, perché hanno avuto la cattiva idea di iniziare uno screening ecografico con il quale identificavano tanti tumori che non sarebbero diventati clinicamente apparenti, cioè non avrebbero mai dato problemi clinici. Sintomi che non avrebbero portato a morte. Questa è probabilmente la punta dell'iceberg, cioè il caso più clamoroso con una grande e inutile spesa sanitaria ma anche effetti collaterali degli interventi chirurgici. C'è poi ancora un altro problema, che è il divario tra le prescrizioni e le erogazioni, cioè tanti test vengono prescritti dai medici di medicina generale, ma poi addirittura solo il 50% viene erogato per tanti motivi, legati per esempio alle liste d'attesa e all'incapacità del Servizio sanitario nazionale di far fronte alle richieste. E c'è un certo grado di casualità in questo, come ha suggerito il professor Longo, nel senso che molti pazienti rinunciano oppure si rivolgono al settore privato. Evidentemente si tratta spesso di prescrizioni non particolarmente importanti o decisive per il benessere o la sopravvivenza del paziente. Professore, mi sembra di capire che ci sia molto da fare nella riorganizzazione del servizio sanitario nazionale. Esattamente, partendo dagli ospedali: troppo piccoli, con una casistica molto limitata, per cui non c'è abbastanza esperienza per garantire una sufficiente qualità. Tutti interrogativi che noi abbiamo sollevato. E dopo tutti questi problemi sollevati, avete anche fatto delle proposte? Innanzitutto dobbiamo puntare sull’aumento della spesa sanitaria perché l'Italia è troppo sotto rispetto agli altri Paesi europei, ma soprattutto dobbiamo lavorare su un miglioramento dell’organizzazione anche per medici e infermieri. Con una maggiore soddisfazione professionale e un lavoro meglio organizzato non ci sarebbe quell'emorragia verso il privato a cui si sta assistendo. È il motivo per cui nel nostro Paese mancano i medici? Si dice spesso che in Italia c’è carenza di medici, ma questo non è vero. La densità medica italiana è superiore a quella del Regno Unito o della Francia . Ciononostante, esistono ampie lacune nella formazione specialistica, in particolare in discipline come medicina d’urgenza ed emergenza, medicina di comunità e cure primarie, anatomia patologica, chirurgia generale e altre. Il problema non è la carenza di medici in generale, ma la carenza di specialisti in alcune discipline, che può essere attribuita alla scarsa attrattività di queste specializzazioni. Al contrario, le discipline che offrono opportunità nel settore privato, come la dermatologia, l'oftalmologia e la cardiologia, non mostrano segni di crisi; in sostanza, vi sono distorsioni nell'allocazione delle risorse di personale dovute agli incentivi del mercato sanitario privato. Si assiste in effetti a una emorragia dal settore pubblico verso quello privato, non solo per le retribuzioni relativamente basse rispetto ad altri Paesi, ma anche per aspetti gestionali, organizzativi e amministrativi e per la cronica mancanza di personale non medico. La carenza è particolarmente importante per il settore infermieristico, e questo è un problema cronico del nostro Paese. Una conseguenza dell’emorragia dal pubblico al privato è l’estensione delle liste d’attesa e un certo grado di elusione della risposta ai problemi sanitari specialmente dei meno abbienti. Le liste d'attesa esistono, ma almeno in parte, potrebbero essere ridotte se non abolite, se si affrontasse il problema dell'appropriatezza, cioè prescrivere degli esami che siano realmente utili. Professore, le cose che dice sono cose di buon senso, nessun dubbio. Ma come si mettono in pratica? Ci vuole un'alleanza tra il ministero, le regioni, i medici di medicina generale, le associazioni mediche e gli ordini. Serve una specie di task force che affronti l'argomento. Sono anni che si parla di linee guida, spesso non vengono seguite, bisogna essere più incisivi, anche sui percorsi diagnostico terapeutici. E tutto questo si deve attuare anche con il rafforzamento della telemedicina e di tutto ciò che riguarda i sistemi informativi. E di nuovo su questo l'Italia è molto indietro. A che punto siamo, professore? È un’ultima chiamata per il nostro SSN? Non direi che è un'ultima chiamata perché il la situazione non è così tragica da pensare che ci sia un collasso a breve del servizio sanitario nazionale, anche se non lo si può escludere. Io direi che il messaggio da lasciare è che la situazione del Servizio sanitario nazionale è critica e preoccupa innanzitutto l'emorragia di personale verso il settore privato, perché il nostro non è più attraente per tutte le ragioni che abbiamo spiegato finora.

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