Ben Gvir e Smotrich, Netanyahu alla prova dei due tribuni di ultradestra

Potere Ebraico, la formazione dell’ex ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, ha lasciato l’esecutivo, come aveva più volte minacciato di fare, in aperta contrarietà all’accordo con Hamas. Non ha però, almeno per il momento, deciso di unirsi all’opposizione, ritenendo necessario scongiurare la caduta dell’attuale esecutivo e optando quindi per la via dell’appoggio esterno. Pur contraria all’accordo non si è dimessa invece, la formazione Sionismo Religioso, guidata dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Per quest’ultimo, la priorità è quella di condizionare Netanyahu ad accettare, dopo la prima fase della tregua, una ripresa delle ostilità, pena la caduta del governo e la messa in discussione della riforma giudiziaria che è l’obiettivo del premier in politica interna. Dal 2022 a oggi, le mosse delle destre Il dilemma del premier è tutto qui: motivato dalla volontà di Netanyahu di formare il suo sesto governo dopo il voto del 2022 aggregando la coalizione più a destra della storia di Israele, imbarcando tutti i partiti religiosi ed etno-nazionalisti e facendo loro concessioni in cambio della riforma della giustizia, un grande progetto di stravolgimento dei rapporti tra potere politico e magistratura. Quest’ultimo è vitale per la sopravvivenza politica del premier inseguito da diversi processi per corruzione che potrebbero comportare per lui pesanti condanne. Per poco meno di un anno e mezzo, la guerra a Gaza ha sopito le diversità in seno alle diverse anime che compongono il governo. Ma ora, con la prospettiva di un cessate il fuoco e forze una tregua di lungo periodo, appaiono sempre più palesi distanze e, soprattutto, priorità. Per il partito di Ben-Givr, uscire dall’esecutivo e passare all’appoggio esterno equivale a un calcolo politico per capitalizzare il dissenso presente tra gli elettori nazionalisti per il compromesso con Hamas. Il passaggio all’appoggio esterno significa che Potere Ebraico non sarà al governo quando saranno rilasciati i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane etichettati come terroristi dal suo leader, scelta la cui responsabilità ricadrà unicamente su Netanyahu e i suoi partner, ma al contempo permette di tenere una porta aperta con il governo aspettando le prossime mosse del primo ministro. Al contrario, rimanere al governo, per Smotrich, significa nel breve periodo poter operare da ago della bilancia dentro la coalizione rimasta a guidare Israele. Per il “falco” delle finanze di Tel Aviv lo sguardo è rivolto soprattutto alla prospettiva di spendere la sua lealtà a Netanyahu nonostante le divergenze sul cessate il fuoco con concessioni sul fronte maggiormente caro al leader della destra religiosa, la Cisgiordania. Inoltre, senza Ben-Gvir dentro il governo Smotrich potrà egemonizzare la destra dell’esecutivo spingendo per concessioni più importanti per la sua parte politica. Ad esempio, nelle ultime settimane prima della tregua il ministro delle Finance si era trovato messo sotto pressione dalla sentenza della Corte Suprema che imponeva al governo di normare la fine dell’esenzione al servizio militare per gli ultra ortodossi . Ora, In quest’ottica, mentre dagli Usa si è registrata l’apertura della nuova amministrazione Usa di Donald Trump alla fine delle sanzioni sui coloni nel West Bank, Netanyahu sta facendo di tutto per presentare il suo governo come tutt’altro che arrendevole verso i palestinesi. I raid nel campo profughi di Jenin, in tal senso, possono essere visti come una concessione del premier alla destra radicale, che anche quando si oppone alle scelte del leader del Likud si trova, inevitabilmente, a condizionarne le mosse. Del resto, al netto delle scelte tattiche, alla fine dei 42 giorni di tregua sia Smotrich che Ben-Gvir hanno dichiarato si esaurirà la loro pazienza. E in vista di allora Netanyahu non sta immobile, dimostrando che il braccio di ferro coi palestinesi è tutto fuorché terminato. Il Likud sotto pressione Chi è messo alla prova, in questa fase, infatti, è proprio il partito del premier: storicamente, Il Likud condivideva con queste destre una politica ferrea sul fronte securitario, ma era separato da Potere Ebraico da un maggior pragmatismo e da Sionismo Religioso da una visione più attenta alla laicità dello Stato. Nell’ultimo decennio Netanyahu ha però progressivamente assecondato le derive radicali delle due destre vicine al suo partito, e fondendole al Likud nella coalizione di governo del 2022 le ha portate, contemporaneamente, nella stanza dei bottoni. Col cessate il fuoco, il primo ministro si rende conto che la sfida di tenere assieme la fine della guerra a Gaza, il prosieguo della coalizione che serve per la sua riforma giudiziaria e la sua permanenza alla guida di Israele appare improba e, potenzialmente, è plausibile pensare che la critica di nazionalisti e religiosi si sommi nella contestazione del capo di governo. Divise nell’approccio, allo scoccare delle sei settimane le formazioni di Ben-Gvir e Smotrich saranno unite nel dare a Netanyahu un ultimatum su Gaza: o la fine della tregua o quella dell’esecutivo. Sarà il momento della verità per il premier più longevo della storia d’Israele. Chiamato ad affrontare proprio quelle forze a cui, per ambizione personale, ha scelto di dare potere e influenza.

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