La Siria e l’Europa, tra la questione profughi e l’ombra di Erdogan

Per l’’Europa sembra che la caduta del regime siriano di Bashar al-Assad, sia essenzialmente una questione di sicurezza interna. Se il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron hanno celebrato come un avvenimento positivo la fine del regime di Damasco l’attenzione dell’Unione nel suo complesso è stata rivolta più alla gestione dei flussi di rifugiati nel Vecchio Continente, che a un’agenda politica di ampio respiro. L'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha stimato che dallo scoppio della guerra civile in avanti i Paesi europei abbiano accolto oltre un milione di profughi siriani, tra rifugiati e oppositori al regime che hanno chiesto di esser classificati come richiedenti asilo. Il 59% di loro si è recato in Germania, il resto principalmente tra Svezia, Austria, Grecia, Paesi Bassi e Francia. Il nodo dei profughi All’indomani della caduta di Assad, Berlino ha repentinamente annunciato la sospensione delle procedure d’asilo per i rifugiati, seguita dall’Austria e da molti altri paesi europei, Italia compresa. Oltre 47mila domande d'asilo in Germania e più di 7mila in Austria sono temporaneamente sospese, mentre si inizia a pensare al fatto che l’instaurazione di un nuovo governo di transizione possa portare a una normalizzazione delle relazioni con lo Stato mediorientale e al ritorno in patria di molti profughi. L’Unhcr ha ammonito i Paesi europei a non revocare la protezione umanitaria ai cittadini siriani prima che “la situazione si stabilizzi in maniera duratura e stabile”, mentre il Consiglio Europeo per i Rifugiati e gli Esuli ha invitato alla cautela, ricordando che da tempo il Vecchio Continente rischia di farsi illusioni sulla Siria. Del resto, ha riportato una nota dell’Ecre, “negli ultimi sei mesi, gli Stati europei hanno persino suggerito di normalizzare le relazioni con il brutale regime di Assad per rimpatriare una parte dei profughi”. Ora, per l’Ecre, “oltre a sostenere la transizione, l'UE dovrebbe garantire che le decisioni sul rimpatrio dei rifugiati siano conformi ai requisiti del diritto comunitario e internazionale”. L’agenda a corto raggio dell’Ue per la Siria Ad ora, Bruxelles non ha rivisto la sua politica verso il Paese con cui non intrattiene relazioni dal 2011 e non ha annullato le sanzioni imposte durante l’era di Assad. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e l’Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, Kaja Kallas, hanno rilasciato solo dichiarazioni di principio: il sostegno europeo all’unità nazionale della Siria e l’apertura di Bruxelles al processo di ricostruzione dello Stato levantino. L’Ue attende passi concreti in termini di stabilizzazione e rispetto del pluralismo da parte del nuovo governo vicino a Hay’at Tahrir al-Sham insediatosi a Damasco sotto la guida di Mohammad al-Bashir per approfondire il dialogo. La necessità di confrontarsi con Erdogan Al momento, nota Eu News, “l’Unione Europea non è in contatto diretto con Hay’at Tahrir al-Sham , ma è disposta a rivedere la propria posizione man mano che la transizione del potere procederà” se saranno rispettati i presupposti indicati da Kallas in una recente conferenza stampa: rispetto delle minoranze, garanzie umanitarie, dialogo con la comunità internazionale. I Paesi europei non hanno una presenza militare paragonabile a quella degli Usa in Siria nè un’influenza politica da poter esercitare su Damasco e questo riduce i margini di manovra del blocco dei Ventisette. Con la Turchia che fa valere la propria influenza sui nuovi governanti e con il ricordo ancora vivo della crisi migratoria del 2015-2016, è chiaro che l’Europa speri nella stabilità della Siria. Ma oltre una timida apertura di principio, per ora, non si può andare, perlomeno finché non saranno riviste le sanzioni e anche il bando al dialogo con Hts che perdura dal 2014, anno in cui il gruppo di Abu Mohammad al-Jolani fu identificato come organizzazione terroristica da Bruxelles. Certamente per la Siria post-Assad il sostegno politico e i capitali europei sarebbero molto utili per la ricostruzione post-bellica. Ma entrambi, al netto dell’entusiasmo per la fine della dittatura, sono ancora prospettive remote.

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