Trump 2.0 alla prova del Senato

La seconda amministrazione di Donald Trump prende forma e mentre si avvicina il 20 gennaio, giorno dell’insediamento, il presidente eletto si prepara alla sfida per la conferma dei suoi nominati. I singoli segretari e più alti funzionari scelti dal presidente infatti devono passare un’audizione al Senato, e anche se il Partito Repubblicano detiene una maggioranza di 53 seggi contro i 47 del partito democratico, non è scontato che tutti i nomi dei fedelissimi indicati dal tycoon superino la ratifica. Trump ha nominato storici e nuovi esponenti del movimento Maga ormai egemonico nel Partito Repubblicano come membri del futuro gabinetto. Ma la loro elezione dovrà passare le forche caudine di senatori tra cui non sono rari gli esponenti più tradizionalisti del Grand Old Party, di stampo conservatore e liberale, o che provengono da Stati in cui un’eccessiva adesione all’agenda ‘MAGA’ potrebbe costare loro la rielezione. Ad aumentare le incognite sono poi eventuali frondisti che potrebbero mettere a repentaglio il passaggio di uno o più candidati. I nominati in bilico Diversi senatori inoltre potrebbero decidere di sfruttare il passaggio alla Camera alta per segnalare ai propri elettori di non essere pienamente allineati al trumpismo. Le occasioni non mancano: superata la parabola del candidato più controverso, l’ex aspirante Procuratore Generale Matt Gaetz, restano molte le figure divisive. Tra queste Tulsi Gabbard, scelta come direttrice dell’intelligence maritenuta poco esperta e su posizioni vicine alla Russia, Pete Hegseth, ex militare e commentatore di Fox News scelto per guidare il Pentagono e ritenuto da molti esperti poco preparato, e soprattutto Robert Francis Kennedy, che divrebbe andare alla Sanità nonostante le idee apertamente antiscientifiche e la posizione no-vax. A loro si è di recente aggiunto Kash Patel, avvocato e ex funzionario del National Security Council che Trump ha scelto per guidare l’Fbi. Patel dovrà a sua volta passare per la procedura di conferma, in cui potrebbero pesare i commenti pesanti sulla necessità di colpire gli oppositori politici espressi in campagna elettorale. Chi può mettere a rischio le nomine I senatori potenzialmente in grado di dare filo da torcere ai nominati, non mancano. Supponendo un voto contrario a molte nomine da parte di tutti e 47 i senatori democratici, quattro defezioni tra i repubblicani basterebbero a far cadere delle teste. In caso di parità, a rompere l’impasse sarebbe chiamato il vicepresidente J.D. Vance, di cui è scontata l’approvazione alle nomine. Le capofila della "resistenza" sono le senatrici più centriste del Partito Repubblicano, l'esponente del Maine Susan Collins e la collega dell'Alaska Lisa Murkowski. Collins, che da cinque mandati detiene a Capitol Hill il seggio di uno Stato saldamente democratico, andrà alla riconferma nel 2026 dopo che, nonostante il trionfo elettorale, Trump non è riuscito a portare dalla sua il Pine Tree State. Collins è da sempre indipendente e schietta verso Trump, e altrettanto lo è Murkowski, tra le poche repubblicane favorevoli al ripristino del diritto all’aborto e all’estensione dell’assistenza sanitaria. Murkowski ha alzato la voce contro Gaetz, ritiratosi dopo una serie di critiche per la sua storia politica e personale, contribuendo a far decadere la sua nomina. Da osservare anche Tom Tillis, repubblicano del Nord Carolina, il cui seggio senatoriale è sempre in bilico. Osteggiato dal movimento Maga, vuole difendere la sua posizione di conservatore moderato così come dovrà fare un altro duo di senatori: Chuck Grassley dell'Iowa e John Thune del South Dakota. L’incognita McConnell Per Trump, in ogni caso, l’incognita più grande resta un’altra, quella di Mitch McConnell, repubblicano del Kentucky che dopo diciotto anni lascerà la carica di capogruppo a Capitol Hill. “I suoi litigi e disaccordi con Trump sono ben documentati”, ricorda la Nbc, aggiungendo che “come leader del Grand Old Party, lo stile di McConnell era solitamente quello di leggere i venti politici all'interno del suo partito e seguirli”. Ora, invece, il veterano del mondo conservatore, che ha alle spalle una storia di dialogo con Joe Biden ai tempi delle amministrazioni Bush e Obama per promuovere legislazioni bipartisan, “non dovrà più farlo”. Le audizioni al senato potrebbero rappresentare per lui l’occasione di far sentire la propria voce, ribadire il suo peso politico e contribuire a segnalare che c’è un Partito Repubblicano che è ancora aderente al tradizionale Grand Old Party. Le nomine rappresentano forse l’ultima possibilità per ricordarlo a Trump: se anche i più discussi tra i potenziali futuri membri del governo passassero, l’identificazione tra il presidente eletto e la sua formazione sarebbe pressoché completa.