Elezioni Usa, viaggio nella comunità arabo-americana di Dearborn. Il reportage

Vengono dal Libano, dallo Yemen, dalla Siria. O dalla Palestina, dall’Egitto e dall’Iraq. Nel cuore del Midwest - in Michigan, alle porte di Detroit - vive e prospera da più di cent’anni la più grande comunità islamica d’America. Maometto & motori: agli inizi del Novecento qui l’industriale Henry Ford cominciò ad assumere prevalentemente proprio immigrati mediorientali perché lavorassero nelle sue fabbriche di automobili. Lo scorso anno il sobborgo di Dearborn è diventato la prima città a maggioranza musulmana del Paese: dei 110.000 abitanti sparsi in poco più di 60 kmq oltre la metà ha origini arabe o nordafricane. È per questo che qui si trovano il Museo Nazionale Arabo-Americano, è di origini libanesi il sindaco, ogni anno si organizza una rassegna cinematografica di film arabi e sorge la più grande Moschea degli Stati Uniti, capace di ospitare fino a mille persone, tra cupole dorate e minareti alti più di trenta metri. La città di Dearborn Età media trentacinque anni, pochissima criminalità, disoccupazione in calo, redditi in crescita: una comunità florida dove convivono - non senza contraddizioni - America e Islam. A prima vista, Dearborn è come una qualunque città di periferia americana: stradoni anonimi puntellati da ristoranti economici, negozi alla buona, semafori, traffico. Lo skyline di Detroit con i suoi grattacieli si staglia in fondo ad una delle arterie principali. Ma Dearborn non è una città qualunque. Donne velate si affrettano sui marciapiedi verso i supermercati. Ragazze con il capo coperto, e le sneakers all’ultima moda ai piedi. Negozi di abbigliamento tradizionale dove è vietato l’ingresso agli uomini. Cartelli in arabo ovunque: dal parrucchiere al dentista all’avvocato. Mentre per le strade rombano Mustang con le bandierine del Libano sul tettuccio, e dai finestrini abbassati arrivano assordanti canzoni in arabo. All’ora della preghiera il canto del muezzin risuona tra queste strade americane chiamando a raccolta i fedeli: gli arabo-americani che hanno plasmato questa città tra poche settimane potrebbero decidere il nuovo Presidente. Elezioni Usa e conflitto in Medioriente Il conflitto in Medioriente coinvolge profondamente Dearborn e i suoi abitanti. “Le nostre radici sono lì - dice Imad Hamad - Quella è la nostra terra madre. Lì Abbiamo lasciato parenti e amici”. Alle primarie democratiche di febbraio, quando gli elettori del partito dovevano scegliere il proprio candidato per la Casa Bianca, oltre centomila persone si dichiararono “uncommitted”, non impegnandosi ad appoggiare il vincitore alle elezioni di novembre. Era un modo per protestare contro la politica filo-israeliana dell’allora candidato Presidente Biden, che nel 2020 grazie al voto degli arabo-americani aveva vinto il Michigan per 150mila preferenze. Il Wall Street Journal pubblicò un editoriale in cui chiamava Dearborn “capitale americana della Jihad”. Qui la vedono diversamente, come mi spiega Hamad, palestinese-libanese, nato in un campo profughi, negli Stati Uniti da quando aveva 19 anni, molti decenni fa: “Questa comunità in generale non è d’accordo con simili definizioni. Non vedono Hamas o Hezbollah come organizzazioni terroristiche, ma come legittimi movimenti di resistenza che combattono l’occupazione e l’oppressione. Non li considerano la stessa cosa. Anche se vi assicuro che la maggioranza delle persone non è vicina all’ideologia di queste fazioni o partiti politici”. Oggi Hamad è Direttore Esecutivo del Consiglio Americano per i Diritti Umani e non ha dubbi: “Questo che sta accadendo in Medioriente - dice - è un vero genocidio. Che in nessun modo può essere giustificato in nome dell’autodifesa”. Dearborn e il movimento "Abandon Harris" Adesso che il conflitto coinvolge Libano e Iran, gli arabo-americani sono furiosi con i democratici: il movimento “Abandon Biden” ha cambiato bersaglio e adesso si chiama “Abandon Harris”, anche se questo alla fine potrebbe significare fare un favore al candidato repubblicano Trump che con loro non è mai stato benevolo. Davanti alla Moschea incontriamo Kshama Sawant, economista di origine indiana che da Seattle ha lanciato - vincendola - la battaglia contro le grandi corporation per il salario minimo a 15$ l’ora. “Questi due candidati, Kamala Harris e Donald Trump, sono entrambi per il genocidio, appartengono a partiti guerrafondai, e nessuno di loro è la soluzione. Quindi il movimento Abandon Harris ha deciso, e noi lavoratori siamo d’accordo, di mandare un messaggio potente in queste elezioni: tracciamo una linea invalicabile, quella del genocidio. Questo significa punire il partito democratico e l’Amministrazione Biden per le loro politiche genocide, e strategicamente ci stiamo organizzando per sconfiggere Harris negli Swing States come il Michigan o la Pennsylvania, perché per vincere le elezioni avrebbe bisogno di vincere proprio qui”. Soujoud Hamade è una giovane imprenditrice e avvocato di origini libanesi, nata e cresciuta qui a Dearborn. “Certo che mi sento tradita - dice - da questo governo ma anche dal mio Paese, perché a prescindere da chi governi, democratico o repubblicano, abbiamo visto come non rispettino le nostre vite, ci percepiscano come inferiori, sia qui che in Medioriente. Sapendo che i soldi delle mie tasse stanno contribuendo alla distruzione della mia terra, o della terra di altre persone, sapendo che servono a uccidere civili innocenti e bambini, o giornalisti, ogni arabo che conosco non ha alcuna intenzione di votare per Kamala. Mentre conosco molti arabi che voteranno per Jill Stein, o Trump”. Jill Stein, la leader che può far perdere i Dem Jill Stein, leader del partito dei Verdi, medico laureata ad Harvard ed ebrea, è diventata l’eroina degli arabo-americani per la sua posizione inequivocabilmente contro la guerra. Non ha una chance, perché negli Stati Uniti non c’è mai stato spazio per un terzo partito, ma se non può vincere, può far perdere il Michigan e quindi la Casa Bianca a Harris. La incontriamo ad un comizio una domenica pomeriggio. È una signora sulla settantina, molto elegante, una vaga somiglianza con la presidente della BCE Christine Lagarde, fatto salvo una kefiah al collo annodata come un foulard francese. Le chiedo come farebbe - da Presidente - a fermare il conflitto in Medioriente. “Alzerei il telefono, come fece Ronald Reagan negli Anni ’80 per dire a Menachem Begin di ritirare le truppe dal Libano e finire i bombardamenti dove migliaia di persone furono uccise” risponde. Non nascondo lo scetticismo: e pensa che basterebbe? Crede che Netanyahu la ascolterebbe? “Solo se ci fosse un embargo sulle armi -spiega- Deve essere attuato un embargo militare ed economico. E Biden e Harris potrebbero farlo già adesso”. Abitanti Dearborn: "Siamo qui per restare" Guerre e instabilità spingono sempre più persone a scappare dal Medioriente e a cercare rifugio altrove. Qui in America oggi sono oltre 1 milione e duecentomila, meno del 3% del totale, ma negli ultimi dieci anni sono cresciuti a un ritmo triplo rispetto agli immigrati da altre parti del mondo. “Siamo qui per restare” mi aveva detto nel suo ufficio prima di congedarci Imad Hamad. Lascio Dearborn con la netta sensazione che gli Stati Uniti stiano diventando sempre di più anche casa loro. E sempre di più loro vogliono far sentire la propria voce.

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