Una lettera delle calciatrici svela lo "sportwashing" saudita

L’Arabia Saudita finisce sul banco degli imputati per lo “sportwashing”. Ha destato infatti scalpore la lettera inviata alla Fifa, la federazione che governa il calcio mondiale, da 106 atlete, tra cui la capitana della nazionale italiana Elena Linari, che chiedono all’organizzazione di rompere gli accordi con Saudi Aramco, il colosso del gas e del petrolio perno dell’economia del Paese del Golfo. L’azienda di proprietà del governo di Riad è stata ad aprile aggiunta dalla Fifa a Coca Cola, Adidas, Qatar Airways e Hyndai-Kia nel ristretto novero dei partner di prima fascia della federazione. Le calciatrici denunciano la problematicità dell’accordo tra la Fifa e un "regime autocratico che viola in maniera sistematica i diritti delle donne e criminalizza la comunità Lgtbqia+", sottolineando come il Paese guidato dal principe ereditario Mohammad bin Salman usi lo sport come strumento di diversione rispetto alle gravi problematiche dei diritti umani sul fronte interno. Lo sportwashing, la pratica di usare i grandi eventi sportivi come forma di “pulizia” dell’immagine di un Paese, è un tema molto discusso nei nostri tempi. E l’Arabia Saudita sta utilizzando ampiamente i grandi tornei di diversi sport e gli investimenti nel mondo del calcio del suo fondo sovrano, il Public Investment Fund , come una degli architravi del progetto Saudi Vision 2030, che mira a costruire una nuova immagine della monarchia del Golfo e a diversificarne l’economia. Le mosse dell'Arabia Saudita sullo sport La rendita petrolifera come perno degli investimenti per rompere la dipendenza del Paese dall’esportazione di idrocarburi alimenta, nel breve periodo, anche gli investimenti sportivi. Giusto pochi giorni fa è finito il Six Kings Slam, l’esibizione tennistica tra i migliori giocatori al mondo che ha visto vincere Jannik Sinner, capace di portarsi a casa un assegno di 6 milioni di euro messo in palio per il trionfatore di un’esibizione esterna all’Atp e gestita dal governo dell’Arabia Saudita. Ed è noto anche il ruolo del Pif nel finanziare l’arrivo di Cristiano Ronaldo e di altri importanti calciatori europei nella Saudi Pro League. Ma non finisce qui. Bin Salman ha dichiarato a Fox News: “Chiamatelo come volete, ma se questo presunto sportswashing aumenterà il mio PIL dell’1%, allora continueremo a farlo”. Da tempo l’Arabia Saudita punta a investire oltre 1 miliardo di dollari nella Professional Golf Association, l’organizzazione che gestisce i principali tornei golfistici globali, ed è molto attiva anche nella Formula 1, di cui Aramco è tra i massimi sponsor. L’Arabia Saudita, che dal 2021 organizza il Gran Premio di Gedda valido per il mondiale, è stata di recente accusata dal New Weather Institute britannico di ingannare gli spettatori della Formula 1 utilizzando la sponsorizzazione di Aramco per promuovere l’uso di carburanti a minor impatto ambientale che non sarebbero disponibili sul mercato. Per Riad queste mosse sono il banco di prova di una lunga marcia che da qui ai prossimi dieci anni dovrà posizionare l’Arabia Saudita per la prova generale del suo salto nel mondo dello sport: l’organizzazione dei Mondiali di calcio maschili del 2034, assegnati a luglio dalla Fifa al Paese, unico candidato per la rassegna, a pochi mesi di distanza dall’accordo con Aramco. Il New York Times a luglio indicava nel presidente della Fifa, Gianni Infantino, un grande sostenitore dell’ipotesi saudita. Il futuro dello sportwashing A questo percorso l’Arabia Saudita ha aggiunto una serie di investimenti per promuovere la pratica dello sport nella popolazione, che per due terzi ha meno di trent’anni, e dal 2017 a oggi ha aperto la possibilità anche alle donne. Ma queste timide riforme non hanno avuto l’effetto di migliorare l’immagine del Paese. E la lettera delle 106 atlete lo testimonia: “Le autorità saudite hanno speso milioni in patrocini sportivi per tentare di sviare l'attenzione dalla brutale reputazione del regime in materia di diritti umani, ma il trattamento delle donne parla da solo", scrive la missiva indirizzata ad Infantino. Un j’accuse importante e che apre a riflessioni sull’uso dello sport come arma di soft power nell’era globalizzata. Lo sport, linguaggio universale e trasversale e settore estremamente visibile, è una porta privilegiata per i cuori e le menti dell’opinione pubblica, specie di quella occidentale che Riad vuole convincere ad essere più indulgente nei suoi confronti. Bin Salman lo sa e gioca tutte le sue carte, soprattutto finanziarie, per il suo progetto. La protesta delle calciatrici, però, conferma che esiste una forza interna al mondo sportivo che si oppone alla tendenza e riapre il dibattito sulle priorità da dare allo sport-business: prima i valori agonistici o gli interessi economici? Questo il nodo da sciogliere per capire se lo sportwashing avrà ancora spazio d’azione negli anni a venire.