Due anni dopo: l'eredità di Mahsa Amini sulla politica iraniana

Due anni dopo la morte di Mahsa Amini, l’Iran non protesta più. Ma questo non significa che le problematiche e le divisioni interne alla Repubblica Islamica siano sopite. Nel settembre 2022, la morte della studentessa 22enne sotto custodia della polizia dopo esser stata arrestata per non aver indossato correttamente l’hijab aveva infiammato l’Iran intero. La protesta nata in risposta alla repressione dei diritti delle donne aveva poi preso la strada della rivendicazione sociale a tutto campo, manifestando il malcontento della popolazione, specie la componente più giovane, per il pessimo stato dell’economia, le disuguaglianze, l’assenza di prospettive. Cosa resta di quei moti? Molti nodi irrisolti e qualche timida apertura. Oggi, come due anni fa la Repubblica Islamica spende una grande quantità di risorse per adattare la spesa pubblica all'alta inflazione, ha una bassa crescita economica per il mancato reinserimento a pieno titolo nei mercati energetici globali, fatica a dare prospettive a una popolazione giovane istruita colpita da un tasso di disoccupazione superiore al 20%. La polizia morale continua ad imporre il rigido rispetto delle norme di abbigliamento mentre grandi risorse sono assorbite dal sostegno alle formazioni paramilitari affiliate a Teheran in tutta la regione mediorientale, da Hezbollah alle milizie irachene, con cui i pasdaran contrasta i nemici, Israele in testa. Un impegno il cui costo ha contribuito a esacerbare la crisi di bilancio e le tensioni economiche interne. Domande di cambiamento Al contempo, sul fronte politico, il regime degli ayatollah non è potuto restare del tutto sordo di fronte alla crescente domanda di cambiamento della società. Testimoniata dal basso tasso di partecipazione registrato al voto per eleggere il successore di Ebrahim Raisi dopo l’improvvisa scomparsa dell’ex presidente nell’incidente aereo dello scorso 19 maggio. L’elezione di Masoud Pezeshkian ha portato alla presidenza un candidato dell’ala riformista del sistema di potere della Repubblica Islamica. Estraneo alla casta del clero sciita e membro dell’ala più moderata dell’apparato, Pezeshkian è emerso in un voto molto diverso da quello del 2021, in cui Raisi aveva vinto dopo che la Guida Suprema Ali Khamenei e il Consiglio dei Guardiani avevano escluso tutte le candidature di stampo non conservatore. Tutt’altro che un rivoluzionario, Pezeshkian è stato preferito da un elettorato in larga parte urbano e di classe media che ha premiato la sua apertura a una pur moderata fase di cambiamenti: “La campagna di Pezeshkian si è concentrata sulla necessità di impegnarsi con l'Occidente, anche sulla questione nucleare, per ottenere l'allentamento delle sanzioni e migliorare le condizioni economiche del Paese, nonché per allontanarsi dall'orlo di una guerra regionale”, ha osservato il think tank Chatham House. Il presidente ha proposto di superare le divisioni interne e la metafora di un Iran chiamato a "tendere la mano" è stata centrale nella sua campagna elettorale, diretta sia al fronte interno che, soprattutto, a quello internazionale. È in questo palcoscenico d’altro canto che l'Iran mira, da un lato, a riaprire il dialogo con l’Occidente e, dall’altro, a cercare sponde con i Paesi della regione con cui è possibile un confronto, dall’Egitto agli Emirati Arabi Uniti. Obiettivo ambizioso ma accidentato, dati i venti tempestosi della geopolitica mediorientale, che tutto chiamano fuorché una riappacificazione generale, e data una situazione che vede come principali alleati dell’Iran paese tuttaltro che benvoluti nelle cancellerie occidentali, come Russia e Cina. Una situazione complessa Ma con il realismo che ne ha sempre contraddistinto il percorso politico, Pezeshkian ha capito che la via per alleviare la crisi dell’Iran passa per un pieno reinserimento del Paese nell’economia globale, e dunque per la fine delle sanzioni. Ma la presidenza si muove su un terreno accidentato e in un contesto in cui il potere politico eletto è subordinato alla volontà della Guida Suprema, apertamente più favorevole alla visione conservatrice della società e della politica iraniana incarnata da figure come l’ex presidente Raisi. Del resto, Pezeshkian deve ricordare che le dinamiche sociali presenti in Iran non devono essere interpretate solo come una dialettica tra un'élite intenta a una repressione del dissenso e una popolazione supina. Le posizioni conservatrici hanno una fascia di consenso anche tra le fasce più deboli della popolazione, in cui sono roccaforti di consenso le politiche assistenzialiste del governo e di enti e realtà legate al clero sciita. I 13,5 milioni di voti raccolti al ballottaggio da Saeed Jalili, avversario sconfitto dal presidente al ballottaggio, lo confermano. Al contrario, sono le classi medie e le fasce più urbanizzate a esprimere sempre maggior dissenso nei confronti di un establishment politico sempre più delegittimato. Intanto i gruppi per i diritti umani denunciano il crescente numero di esecuzioni per tutti i tipi di reati, volte a creare paura e a dissuadere gli oppositori da qualsiasi manifestazione di dissenso.

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