La storia di Francesco Ambruoso, sopravvissuto al 9/11: “Ricordo solo la polvere”

Francesco Ambruoso ha quarantasette anni, due figlie e uno strano accento americano che si mescola al dialetto pugliese, dovuto alle origini della sua famiglia e alle lunghe estati passate a casa della nonna, in Italia. Ha una vita normale, che divide tra le passeggiate nei boschi del Connecticut e un lavoro come senior regional consultant alla Virtus Investment Partners. I fili di questa normalità si spezzano ogni tanto, quando la sua mente lo riporta all’undici settembre 2001 e a quell’attentato terroristico da cui è riuscito miracolosamente a salvarsi. “I think about it at the most inopportune times, ci penso nei momenti meno opportuni”. Francesco aveva 24 anni nel 2001 ed era alla sua terza settimana di stage alla Morgan Stanley. “Era il mio primo lavoro dopo il college e i miei genitori erano così fieri di me. Mi ricordo che ne avevano parlato a mia nonna in Puglia e tutto il paese sapeva che il piccolo Francesco era alle Torri Gemelle”. “Quel pilota doveva essere ubriaco” La mattina dell’undici settembre Francesco aveva appena finito una riunione ed era in pausa caffè. Affacciandosi dalle grandi vetrate dell’ufficio, che davano su Manhattan e sulla Statua della Libertà, vide del fumo e dei foglietti bruciacchiati che svolazzavano. “Capii subito che era successo qualcosa - ricorda - l’istinto mi disse di fuggire”. A confermare le paure del giovane stagista, le parole del capo della sezione marketing: “Mi dicono che è successa un’emergenza all’altro palazzo. Prima che scatti l’allarme, cominciamo ad evacuare l’edificio”. La situazione sulle scale era surreale: le persone scendevano ordinatamente, come se fosse una normale prova di sicurezza. Si pensava ad una bomba. “Io non ero tranquillo: qualche tempo prima c’erano stati altri attentati e tutto poteva peggiorare velocemente”. Intorno alle nove, finalmente una voce dagli altoparlanti: “Signori e signore, un aereo ha colpito l’altra Torre. Vi preghiamo di rimanere calmi”. Un aereo? Ma come un aereo? “Quel pilota doveva essere scemo - rammenta di aver commentato Francesco con i colleghi - quanto meno, ubriaco! Ma come fai a non vedere l’edificio più alto di New York?!”. Ambruoso ricorda di aver pronunciato queste parole un momento prima che il secondo aereo si schiantasse sulla Torre Sud. “Da lì, ho solo stracci di memoria: l’edificio ha ondeggiato, a destra e a sinistra, era come un terremoto. Sembrava di stare su una nave in tempesta”. L’inferno sulle scale Tutto quello che Francesco ha visto, dallo schianto dell’aereo in poi, è stata polvere. I suoi sentimenti, le sue emozioni erano, invece, silenziate. “Era come se la mente si fosse staccata dal mio corpo: non ero io che stavo vivendo quelle atrocità, era un attore, era Arnold Schwarzenegger, era Rocky, non ero io, il mio cervello si rifiutava di crederlo”. Quella che prima era una tranquilla evacuazione anti-incendio, con i colleghi che scherzavano sul pericolo scampato, si è trasformata in una corsa disperata verso la vita. “Le persone scendevano le scale guidate dall’unico pensiero di uscire il prima possibile da quell’edificio, ma nessuno è stato lasciato indietro. C’era- si commuove Francesco- un ragazzo in sedia a rotelle che si era già arreso al suo destino. Alcune persone si sono avvicinate e lo hanno preso in collo, portandolo in salvo”. L’unico pensiero che tormentava Ambruoso era scendere le scale e uscire: “Devo scendere, devo uscire, mi ripetevo solo questo”. Dopo minuti interminabili, ecco l’ingresso del palazzo: “Quando vidi la luce provai una gioia indescrivibile. Ma poi realizzai cos’era successo: alzai gli occhi al cielo ed era l’inferno, vidi i pompieri entrare nella Torre per non uscirne più”. La fuga attraverso Manhattan Appena uscito dalla Torre Sud, Francesco provò un terribile senso di smarrimento. “Volevo fare qualcosa anch’io per aiutare gli altri, ma avevo solo 24 anni, ero al mio primo lavoro: mi sentivo impotente”. Ad un certo punto, Francesco pensò che la cosa migliore da fare fosse lasciare il World Trade Center, andare il più lontano possibile. Guidò una decina di persone, che, come lui, erano smarrite e spaventate dalla precipitosa fuga sulle scale, dall’altra parte di Manhattan, attraversando una New York spettrale. “Non avevo mai visto la città così: solitamente piena di vita, quella mattina era completamente vuota. Nessuna macchina, nessuna persona. Tutto sembrava ovattato, stretto nell’involucro maledetto di un evento che avrebbe cambiato la storia”. Quando furono abbastanza lontani dal luogo della tragedia, Ambruoso ritrovò un po’ di calma e organizzò il da farsi. “Decisi di tornare a casa con il primo treno disponibile. Abitavo ad un’ora da New York e chiesi ai miei colleghi se qualcuno di loro volesse passare la notte da me prima di rimettersi in viaggio. Un ragazzo californiano accettò la mia ospitalità e dormì a casa mia prima di partire per Sacramento. Non l’ho mai più rivisto”. “Come mai mi sono salvato proprio io?” “Per molti anni, dopo l’attentato, mi sono sentito molto in colpa”. Francesco, nel ripensare alle ferite che l’undici settembre gli ha lasciato, non riesce a trattenere le lacrime. “Mi svegliavo la notte pensando: perché non sono morto? Come mai sono stato tanto fortunato in una tragedia del genere? Me lo merito?”. Nonostante, in questi 23 anni, Francesco si sia costruito una vita, un lavoro e una famiglia lontani dalle vecchie ombre, nessun evento lo ha cambiato e colpito come l’attentato del 2001. “Quando guardo le mie figlie, mi sento così grato alla vita. L’aver sfiorato la morte mi fa capire quanto sia prezioso ogni momento ed ho la consapevolezza incrollabile di non voler buttare via questo meraviglioso regalo”.

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