Paul Lynch: "L'Europa sul precipizio dei totalitarismi: simulazione di una catastrofe"

Tra gli ospiti più attesi. Una formula che si usa spesso e che è sicuramente valida per Paul Lynch, star di questa edizione del Festival di Mantova. Nel suo caso, però, verrebbe da dire che è stato atteso in modo quasi escatologico, perché dal vincitore del Booker Prize 2023 ci si aspettavano delle risposte sul nostro futuro di europei, quasi fosse un oracolo da consultare. Specie dopo le regionali in Germania e l'avanzata dell'Afd. E forse per questo è stato inondato, come ci ha raccontato, di domande politiche - "mai così tante" - da quando ha messo piede in Italia. Il suo “Il canto del profeta”, edito in Italia da 66thand2nd, ha trionfato sui concorrenti del prestigioso premio con una trama semplice e carica di pathos: un partito di estrema destra vince le elezioni in Irlanda , comincia la pioggia di arresti dei dissidenti, scoppia la guerra civile, una donna deve tenere i pezzi della propria famiglia nel mezzo del caos. È quella che Lynch definirebbe non una profezia, ma "una simulazione di catastrofe". Come è nato "Il canto del profeta"? Per sei mesi ho scritto il romanzo sbagliato. Sei mesi di tortura interiore, ma come scrittore ho deciso di continuare perché niente è sprecato quando si scrive. Un sabato pomeriggio, capii che il libro a cui stavo lavorando non era quello giusto. Sono tornato alla scrivania il lunedì e ho sperato per il meglio. Ho aperto un documento e ho scritto la pagina iniziale de “Il canto del profeta”, di getto. Non avevo idea di quello che stavo facendo, ma avevo iniziato. C’era questa energia che risuonava nelle parole. Il romanzo era una cosa sola con le parole. Cosa le ha permesso di sbloccarsi? Il subconscio. Noi viviamo accanto a un angolo buio, a cui non sappiamo bene come accedere. Quando rileggo la prima pagina, capisco che tutto il libro era già racchiuso nelle prime righe e che una parte di me sapesse già quello che stava facendo. Sono affascinato da questo aspetto. Perché il suo libro ha avuto successo, secondo lei? Questo libro lavora su due livelli, gli occidentali ci hanno visto un avvertimento profetico di quello che potrebbe succedere se sconfinano nell'autoritarismo e nel totalitarismo, ma allo stesso tempo se leggi questo libro in altre parti del mondo ritrovi la tua realtà quotidiana, quindi il disfacimento, la guerra e le distruzioni. È un cavallo di Troia. Sbagliato chiamarla distopia? Una distopia guarda a qualcosa di ipotetico, è una riflessione speculativa sul futuro, ma quello che racconto in questo libro sta già accadendo e infatti questo romanzo è su quello che è stato, quello che sarà e quello che continua a succedere. Racconto ciò che l’umanità infligge da sempre a se stessa. La miseria fa parte della condizione umana. La guerra è qualcosa di ineluttabile, continuiamo a dimenticarcelo e quindi viviamo in una specie di amnesia perpetua. Del passato non tratteniamo nulla. Gli eventi del XX secolo non sono più un ricordo vivo. Ci dimentichiamo le dinamiche degli eventi, che l’abisso è sempre dietro l’angolo e che la civiltà può sprofondarci da un momento all’altro. Il romanzo può essere letto anche da questo punto di vista: come un avvertimento Ha iniziato a scrivere questo libro nel 2018, in mezzo sono scoppiate due guerre. Sente di aver previsto qualcosa? Non è il lavoro dell’artista prevedere, non dobbiamo essere profetici. Il mio lavoro è raccontare storie che riflettano la condizione umana e mettere nero su bianco delle verità senza tempo. Sono interessato a trovare storie che funzionino dal punto di vista narrativo, ma che scavino nell'essenza. Qual è la dignità essenziale di ogni persona? Me lo chiedo spesso. Poi certamente gli artisti hanno sempre le antenne alzate. Siamo fatti casomai per fare previsioni di lunghissimo periodo. Cosa la spaventa di più della contemporaneità? I grandi cambiamenti sulla nostra comprensione del mondo, su come organizziamo le informazioni, come le raccogliamo. I social media e internet hanno frammentato la società del consenso. Viviamo in un’infinità di versioni possibili del mondo, questo aspetto è stato portato alle estreme conseguenze. Al di là del fenomeno delle fake news, ora siamo in un momento in cui non c’è più condivisione sull’oggettività della realtà. Ritengo sia una deriva molto pericolosa. Non c’è più una logica, o un concetto di realtà su cui troviamo un punto di incontro. Pensa che la civiltà sia destinata a avere la meglio sulla barbarie? La civilizzazione è l’ideale, il tribalismo è un istinto. Gli esseri umani sono essenzialmente tribali. Come stare lontani da questo pericolo? Ci può salvare solo la politica e gli ideali. E politici in grando di diffonderli e innestarli nella società. Che lezione dovrebbero trarre gli europei da questo libro? Non ho scritto un libro per dare lezioni, altrimenti ucciderei la fiction e scriverei saggi, ma il libro funziona come simulatore di catastrofi. Gli europei dovrebbero leggerlo in questo modo. La protagonista del suo romanzo è una donna, un esempio di dignità e lucidità in mezzo al caos: lei si ritiene un “femminista” e ritiene che questo libro sia un libro femminista? Questa è una categoria, non posso etichettare la mia fiction e non lo farò mai. La narrativa è un modo di approcciare la complessità della realtà. Qualsiasi categoria restringerebbe la lente con cui, io come scrittore, osservo il mondo. Contrariamente alle aspettative, io non sono uno scrittore politico. Posso però dire che come narratore mi metto da parte delle vittime, perché ritengo che la società tenda a riconoscere solo la dignità dei ricchi e potenti. Con i miei libri riequilibro. Subito dopo il suo trionfo al Booker Prize, i media internazionali, e in particolare quelli britannici, hanno parlato del momento d’oro degli scrittori irlandesi. Perché? Gli scrittori irlandesi stanno effettivamente ottenendo tanti riconoscimenti. Ci sono due ordini di motivi. Strutturalmente gli artisti irlandesi ottengono molto sostegno statale, attraverso vari organi. Parliamo di borse e bonus salariali per potersi dedicare alla redazione del libro. Lavorando in un call center tutto il giorno, è molto difficile portare a termine un romanzo. Manca un pezzo, però. C’è qualcosa di più interessante. L'Irlanda sta attraversando una rivoluzione sociale. Negli ultimi dieci anni la mia generazione e quella successiva hanno completamente rigettato la Chiesa cattolica. Quando ero un bambino l'Irlanda era uno stato teocratico che controllava politica, scuole, e via dicendo. Oggi non è più così. Sebbene abbia ancora influenza nelle scuole, l'Irlanda è uscita da questa teocrazia e dall’ombra della chiesa, abbracciando valori europei e cosmopoliti, profondamente moderni, e a questo aiuta l'essere a metà tra Usa e Europa. Tra questi due poli ha trovato una sua centralità. Le idee circolano, gli irlandesi si chiedono: “Chi siamo?” Noi scrittori cominciamo a visualizzare l'identità e questo ci rende così pieni di cose da dire. Prendete "Il canto del profeta", è un romanzo irlandese, perché è ambientato in Irlanda, ma è allo stesso tempo globale perché parla di cose universali, cosciente della situazione internazionale. Stiamo rompendo con la narrazione tradizionale che colloca l'Irlanda tra gli Stati laterali, il Paese dove piove sempre e si passano i pomeriggi a bere tazze di tè. Ritiene che il cattolicesimo eserciti ancora un peso su di lei? Ho passato tutta la mia giovinezza ad allontanarmi dalla religione. Sono un ateo convinto, ma credo in una totalità, che siamo connessi a qualcosa di altro. Ha fiducia o fede in qualcosa? Dentro di noi c’è una parte silenziosa e che dobbiamo ascoltare: è il nostro autentico sé. Ogni religione parla di questo. Non puoi sapere chi sei, se non sai ascoltare te stesso. Dobbiamo coltivare il silenzio. In che modo? Leggi un libro, vai a meditare come faccio io, vai a fare una passeggiata, qualsiasi cosa che ti faccia coltivare il silenzio che è sacro.