"Portate a casa gli ostaggi", la protesta che blocca Israele

“Le sue mani sono delicate, ha la freschezza della gioventù, è piena di bellezza”, scandisce in ebraico la voce di uomo, al ritmo di una nenia orientale. La musica arriva dal tetto del Museo d’arte di Tel Aviv, edificio brutalista che si affaccia su quello scorcio d città ribattezzato, dal 7 ottobre, la piazza degli ostaggi, quartier generale delle famiglie dei quasi duecento ostaggi sequestrati quel giorno da Hamas, e trascinati a Gaza. I corpi di sei di loro sono stati ritrovati durante il week-end in un tunnel nel Sud della Striscia; addosso avevano i segni di una vera e propria esecuzione. Prima che nella sera di Tel Aviv le strade si riempissero di manifestanti, prima che il gigante sindacato nazionale, l’Histadrut, dichiarasse per lunedì una giornata di sciopero nazionale contro un governo accusato di ritardare un possibile accordo sul ritorno degli ostaggi, “siamo arrivata qui, la mattina, disperati, con gli occhi rossi di lacrime”, ci ha raccontato Tania Coen, direttrice del Museo. Così, pensando in che senso dirigere le loro frustrazioni, lei e il suo staff hanno ricordato un lavoro particolare dello scultore e pittore israeliano Moshe Gershuni: Yad Anuga, mano gentile, in ebraico. Si tratta di un’opera multimediale dell’artista che legge, su una musica orientale, una poesia in ebraico degli anni Trenta, simboleggiando così un incontro tra culture. Negli anni Settanta, l’opera di Gershuni aveva acquistato connotazione politiche – qui un altro carico messaggio – diventando riflessione sul conflitto israelo-palestinese e sulla ricerca di una soluzione di pace, che oggi è da lungo tempo interrotta. È in questo modo, inondando la piazza degli ostaggi con un lamento antico, che il Museo di Tel Aviv ha deciso di anticipare manifestazioni e scioperi, chiudendo domenica le sue porte ai visitatori. La direttrice ha poi scritto al suo staff, invitandolo a partecipare alla protesta contro il governo di Benjamin Netanyahu, e in favore di un accordo capace di riportare a casa il resto degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi palestinesi di Hamas. Migliaia di persone sono scese in piazza tra domenica e lunedì: si è trattato della contestazione più imponente dallo scoppio della guerra dal 7 ottobre. Quel giorno, centinaia di uomini armati di Hamas hanno attaccato il Sud d’Israele massacrando 1.200 persone, civili per la maggior parte, sequestrando centinaia di israeliani. La conseguente operazione militare israeliana contro Gaza ha ucciso 40mila palestinesi, secondo fonti della sanità locale. Centouno ostaggi sarebbero ancora nel territorio palestinese, per l’associazione che rappresenta le loro famiglie, ma 35 sarebbero morti. Domenica sera, dopo la notizia dell’esecuzione dei sei israeliani, a Tel Aviv, cuore da mesi delle proteste, hanno chiuso bar, ristoranti, negozi, centri commerciali, con commercianti e ristoratori che incitavano la clientela a unirsi ai manifestanti. L’aeroporto Ben Gurion, unico scalo internazionale del Paese, è rimasto fermo per ore lunedì, prima che nel pomeriggio un tribunale del lavoro dichiarasse la fine anticipata dello sciopero. “Domenica sera le manifestazioni è stata angosciante – ci ha detto Tania Coen – Le persone erano pressate, le une sulle altre. È stato commovente vedere i più anziani, la generazione che ha costruito Israele, mostrare cartelli con scritte come: ‘Avete rovinato il Paese’. Israele è ormai spaccato in due”. Tania Coen chiude il Museo per permettere al suo staff di partecipare alle manifestazioni, e perché, dice, “le mie posizioni sono di difesa della democrazia. Non sto dicendo che sono parte di questo o quel partito, ma che sono parte della polis. Come istituzione culturale non posso continuare ad agire in assenza di democrazia. E benché questo sciopero non possa ottenere nulla, è l’unico mezzo democratico che abbiamo per esprimere dissenso e frustrazione”. “Il nostro primo dovere, come intellettuali ed educatori – le fa eco Eran Neuman, preside della Facoltà di belle arti dell’università di Tel Aviv - è quello di rispondere a quanto sta accadendo. Questo è più importante del fare ricerca”. Per questo, ricorda, “anche se l’anno accademico non è ancora iniziato stiamo incoraggiando i nostri studenti a prendere parte a manifestazioni e scioperi”.

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