Da Joe Biden a Kamala Harris, su Gaza non si cambia rotta

Kamala Harris non intende cambiare la politica statunitense di sostegno a Israele. Con il passaggio di testimone da Joe Biden alla vicepresidente quindi non verrà meno la fornitura di armi allo Stato ebraico che numerosi analisti ritengono ormai l’unica leva capace di fare pressione sul governo di Benjamin Netanyahu perché eserciti autocontrollo e si orienti verso una soluzione politica del conflitto. Harris lo ha detto chiaro e tondo nel corso di un’intervista alla CNN, la prima con un grande network televisivo dall’accettazione della nomination per il partito democratico. “Dobbiamo ottenere un accordo” sul cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi ha detto la VP, assicurando che lei e il presidente lavorano “giorno e notte” per raggiungere un’intesa e ribadendo diritto di Israele a difendersi e rilanciando la soluzione ‘dei due Stati’ e il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. Una posizione "incrollabile" “Sono incrollabile nel mio impegno per la difesa di Israele e la sua capacità di difendersi. E questo non cambierà” ha detto Harris nel corso dell’intervista esclusiva con la giornalista Dana Bash, ammettendo che “troppi palestinesi innocenti sono stati uccisi” e aggiungendo che bisogna “raggiungere un accordo che riguardi la liberazione degli ostaggi”. Pur dimostrando più empatia nei confronti dei palestinesi di quanto non abbia fatto il presidente Biden, la posizione della vice e candidata alla Casa Bianca rappresenta una delusione cocente per la comunità arabo-americana e i democratici convinti che la politica di Washington in Medio Oriente sia troppo schiacciata sulle posizioni del governo israeliano e che esponga gli Stati Uniti all’accusa di ipocrisia e doppi standard. Unità d'intenti attorno a Harris Che con la prossima uscita di scena di Joe Biden – strenuo difensore di Israele autodefinitosi “un sionista convinto” - il partito democratico non si stesse orientando su posizioni più critiche nei confronti di Tel Aviv e della sua campagna militare, che nella Striscia di Gaza ha già causato più di 40mila morti in maggioranza civili, era apparso chiaro fin dalla Convention della scorsa settimana a Chicago. Non solo nel corso della kermesse, che ha visto sfilare ex presidenti, personaggi pubblici e sostenitori dei Dem, Harris non ha preso le distanze da un partner che molti critici vedono ormai come inaffidabile e che abusa del sostegno incondizionato degli Usa. Ma gli organizzatori della convention hanno respinto le richieste di dare la parola ai rappresentanti del movimento ‘uncommitted’ che alle primarie in Michigan, Wisconsin e Minnesota ha raccolto oltre 700mila schede bianche contro il sostegno unilaterale da parte dell’attuale amministrazione al governo israeliano. Le ragioni del rifiuto sono chiare a tutti: per evitare ulteriori scossoni - dopo aver accortamente gestito la spericolata manovra del cambio di candidato in corsa a poche settimane dal voto - il Partito Democratico ha organizzato la sua convention in modo da mantenere scrupolosamente intatta l’unità di intenti attorno a Harris. Un esercizio rafforzato anche a costo di occultare dai riflettori la tragedia di Gaza. Speranze infrante "Si possono citare autodeterminazione, cessate il fuoco e sofferenza, ma se non si è disposti a fermare le spedizioni di armi o ad ascoltare le voci palestinesi sul palco, questo per me significa molto di più", ha spiegato Halah Ahmad, portavoce del movimento uncommitted del Michigan a Le Monde. L'attivista ritiene che il messaggio rivolto agli elettori di sinistra che si sono dimostrati sensibili alla causa palestinese sia brutale: “Vogliamo i vostri voti, ma non vogliamo sentire le vostre voci". Quando a luglio Joe Biden aveva annunciato il suo ritiro, tra i democratici contrari al sostegno al governo israeliano c’era stato un sospiro di sollievo La speranza era che Harris - candidata alla presidenza di quello che è forse l’unico paese al mondo che potrebbe obbligare le parti a fermare la guerra - avrebbe cambiato i toni della politica statunitense su Gaza. Queste speranze si sono infrante quando, alla convention prima e nell’intervista di ieri poi, le parole che i pacifisti avrebbero voluto sentire sono risultate del tutto assenti: niente sulle accuse di crimini di guerra rivolte ai vertici israeliani da vari organismi internazionali, né alcun cenno di critica a Benjamin Netanyahu, che, dopotutto, vuole che Donald Trump torni alla Casa Bianca. Anche se per il premier israeliano con queste premesse, chiunque abbia la meglio a novembre, le elezioni americane sembrano già vinte.