L'Afghanistan non è un Paese per donne. La più grande crisi dei diritti è (quasi) ignorata

La crisi in Afghanistan è in gran parte scomparsa dalle notizie. Oscurata dalla guerra in Ucraina e da quella a Gaza e dall'umiliazione dei paesi occidentali i cui vent'anni di intervento militare e civile si sono conclusi nel peggior modo possibile: con il ritorno al potere dei talebani. Nei tre anni trascorsi dalla presa del controllo dell'Afghanistan nell'agosto 2021, gli ex studenti coranici hanno portato avanti attacchi sistematici ai diritti umani delle donne e delle ragazze, che oggi – a rischio della vita – affrontano molestie, aggressioni, detenzioni arbitrarie, torture ed esilio, per opporsi agli abusi. Un "Apartheid di genere" Tra gli osservatori e gli esperti di parità di genere, c'è ampio consenso sul fatto che in Afghanistan la situazione delle donne e delle ragazze sia in assoluto “tra le peggiori al mondo”. E che la loro discriminazione sistematica e istituzionalizzata sia al centro dell’ideologia e del governo dei talebani, in linea con comportamenti tacciabili di veri e propri “crimini contro l’umanità” e “apartheid di genere”. Dall'adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani 75 anni fa, l’unico precedente di una tale discriminazione di genere si era verificato una volta sola dal 1996 al 2001, sempre quando i talebani controllavano l'Afghanistan. Il divieto imposto alle donne di lavorare nelle agenzie umanitarie e non solo ha precluso alle donne afghane qualsiasi contatto con il mondo esterno. Inoltre, in una società sempre più segregata – uomini da una parte e donne all’altra - se le lavoratrici non sono lì per portare aiuti e servizi, la popolazione femminile ne resterà privata. Significa niente cure, niente istruzione, niente accesso ai servizi essenziali. Le atlete olimpiche disconosciute dai talebani Ultima, paradossale manifestazione pubblica della discriminazione subita dalle donne afghane da parte dei talebani è il disconoscimento da parte di Kabul delle tre atlete che partecipavano alle Olimpiadi di Parigi. La squadra olimpica dell’Afghanistan, che come il suo comitato olimpico è composta da sei esponenti tutti in esilio, ha partecipato alle gare di atletica, nuoto e judo e ciclismo con i colori del Paese il cui governo però le ha disconosciute. In risposta al rifiuto del regime talebano di riconoscere la squadra, il Comitato olimpico ha fatto sapere che nessun funzionario talebano sarà accreditato per i Giochi. Come ha sottolineato Friba Rezayee, atleta di judo alle Olimpiadi di Atene del 2004, intervistata dal Nyt, le atlete donne sono state costrette a lasciare il paese per potersi allenare e preparare per i Giochi, dato che i talebani hanno vietato loro di praticare sport, di partecipare alle competizioni e persino di accedere alle palestre. “Nessuna delle tre donne che rappresentano l'Afghanistan, nell'atletica e nel ciclismo, vive e si allena nel Paese, né potrebbe visitarlo senza rischiare la vita” ha spiegato Rezayee. Dal canto loro gli atleti afghani hanno chiesto al CIO di impedire al Paese di partecipare. La partecipazione è vista dagli atleti come un implicito riconoscimento di un regime violento che non rispetta i diritti umani. Conseguenze per tutte Un effetto degli abusi dei talebani è che l'asticella per i diritti delle donne a livello globale si è appena abbassata molto. Se il mondo può imparare a convivere con gli abusi dei talebani, i cui leader possono volare su jet privati, sfilare su tappeti rossi, dirigere ambasciate ed essere corteggiati per accordi commerciali, allora questa è una brutale dimostrazione di quanto siano fragili i diritti delle donne e delle ragazze, non solo in Afghanistan.