Quarto mandato a Paul Kagame: Ruanda al bivio tra sviluppo e autoritarismo

Lo scorso 15 luglio il presidente ruandese Paul Kagame è stato riconfermato per un nuovo quarto mandato alla guida del piccolo paese africano senza sbocco sul mare, incastonato nella Regione dei Grandi Laghi. Secondo la Commissione elettorale nazionale, il presidente ha ottenuto oltre il 99% dei suffragi, una vittoria schiacciante in una competizione considerata da molti osservatori come ‘una pura formalità’. Il voto, non libero secondo gli standard internazionali, mette in luce le contraddizioni di un paese che a trent’anni di distanza dal genocidio - iniziato nell’aprile del 1994 e conclusosi a luglio dello stesso anno dopo aver causato almeno 800mila vittime - avanza nel suo percorso verso lo sviluppo trascinandosi dietro una serie di contraddizioni. Tutte sintetizzabili nell’agenda politica del leader del paese, in carica dal 2000. Tra crescita e povertà Protagonista di un miracolo economico che gli è valso il soprannome di “Svizzera dell’Africa”, il Ruanda è un paese in cui convivono dinamismo economico e disuguaglianze. Complice una fiorente industria mineraria , un settore finanziario all’avanguardia e un distretto dell’innovazione in crescita, il Ruanda vanta uno dei tassi di sviluppo più alti al mondo. Negli ultimi 10 anni il suo Pil è cresciuto a ritmi di oltre il 7% annuo, ma al contempo, oltre metà dei ruandesi continua a vivere sotto la soglia di povertà. Stabilità e repressione Altro dualismo è quello tra la relativa stabilità interna e la repressione del governo del Fronte Patriottico Ruandese. Kagame, divenuto presidente dopo le dimissioni del predecessore Pasteur Bizimungu ha continuato a spingere sul consolidamento dell'unità nazionale e il superamento delle differenze tra Hutu e Tutsi ma, come ha più volte denunciato Human Rights Watch, lo ha fatto a caro prezzo della libertà di espressione e politica. Negli ultimi anni diversi avversari politici del presidente ed esponenti di opposizione sono stati impossibilitati a svolgere attività politica o costretti all’esilio. Una situazione che, in occasione dell’ultima tornata, ha spinto la leader dell’opposizione Victoire Ingabire Umuhoza a contestare la legittimità del voto: “Se Kagame è così popolare, perché ai suoi sfidanti credibili è impedito di candidarsi contro di lui alle elezioni? Questo risultato elettorale dimostra ancora una volta che il Ruanda ha molta strada da fare nel suo cammino verso la democrazia”. Perno o elemento di instabilità? Sul fronte diplomatico infine, se da anni Kigali svolge un ruolo attivo per la stabilità regionale, è accusato di operare dietro le quinte una politica del divide et impera profondamente destabilizzante. Vicino agli Stati Uniti ma in ottimi rapporti d’affari con la Cina e amico dell’ex governo conservatore del Regno Unito di cui si era detto pronto a ospitare i rifugiati, Kagame è da un trentennio una figura controversa in Africa equatoriale. Nel 1997 ha contribuito assieme alle forze ugandesi a guidare la destituzione del dittatore Mobutu in Repubblica Democratica del Congo, prima di esser coinvolto nel conflitto generalizzato nel Paese tra il 1998 e il 2003. Soprattutto, però, il Ruanda è accusato di sostenere, tramite proxy come il gruppo paramilitare ‘Movimento 23 Marzo’, la guerra nella vicina regione congolese del Kivu, teatro di un conflitto che si trascina da oltre tre decenni. Obiettivo di Kigali – come documentato anche in numerosi rapporti Onu – sarebbero le materie prime e pietre preziose, tra cui coltan e diamanti, di cui il sottosuolo del Kivu è ricco. Kagame, da parte sua, nega ogni coinvolgimento nel caos del Kivu, ma si dice pronto a combattere contro la RDC, dove ritiene trovino ospitalità i responsabili del genocidio dei Tutsi del 1994. In definitiva, se Paul Kagame è un leader sempre più centrale in Africa, la sua agenda politica è ricca di chiaroscuri. E la posizione strategica del Ruanda in un continente in cui si rinnova lo scontro tra grandi potenze lo rende un attore centrale con cui tutti, devono avere a che fare. Da qui, probabilmente, le reticenze della comunità internazionale a sollevare critiche su un voto che sarebbe lunare definire conforme ai più elementari standard democratici.