Vladimir Putin, 25 anni da zar

Un quarto di secolo. Piaccia o meno, Vladimir Putin si conferma il leader più longevo della storia contemporanea. Durante il suo “regno” sono passati Bush padre e figlio, Clinton, Obama, Trump, Tony Blair, Angela Merkel. E mentre questi nomi ormai sono consegnati ai libri di storia, lui, l’ex apartchik di San Pietroburgo che dopo il crollo dell’Unione Sovietica aveva dormito in macchina arrangiandosi come tassista per i turisti, è ancora lì, saldamente alla guida della Federazione Russa. Il testimone di Eltsin E se c’è una vita, una carriera politica, che rappresenta appieno il percorso della Grande Madre Russia del nuovo secolo, questa è la sua. Non a caso prende le redini del paese proprio nell’agosto del 1999, per sostenere – e poi rimpiazzare – il vecchio e impresentabile Boris Eltsin, molto più sensibile alla vodka che alla crisi in cui versa il paese, collassato dopo il crollo del muro di Berlino. E il passaggio di consegne tra il vecchio politico sovietico che era stato travolto dalla tumultuosa trasformazione della Russia post-Sovietica e l’apparentemente grigio funzionario del KGB segna la svolta che cambia in modo irreversibile la storia della Russia e, volenti o nolenti, del mondo intero. A un primo sguardo, soprattutto delle sue foto da giovane, può sorprendere che un uomo minuto, dall’aspetto piuttosto scialbo e anonimo, abbia potuto percorrere un cammino così lungo, e sia oggi indicato come il modello del leader carismatico. Perché questo è. Ed è anche la prova vivente di come la combinazione di determinazione e una ferrea forza di volontà possa essere un’arma formidabile. In questa narrazione manca però un altro elemento, decisivo. Che fa mutare questa prima impressione da sogno americano nell’incubo che conosciamo oggi: la totale assenza di scrupoli. Dai rapporti alla Makarov di Dresda, la carriera nel KGB Perché Vladimir Vladimirovic Putin non è figlio dell’élite sovietica, anzi. Non è un predestinato. Nasce in una modesta palazzina condivisa a San Pietroburgo, nel 1952, da una famiglia di militari, ma nessuno di alto livello. Il padre era un sommergibilista, la madre un’operaia. E sì, il nonno era stato il cuoco di Lenin e Stalin, ma non era stata certo questa entratura ad aprirgli le porte della carriera politica. Senza dubbio era familiare con l’ambiente militare, ma nulla avrebbe fatto presagire il suo percorso. Un percorso che, però inizia in un modo che non lascia dubbi con il suo ingresso nel KGB, il leggendario servizio segreto sovietico. A quanto risulta dalle fonti ufficiali, però, non risulta abbia incarichi operativi, anzi. Camuffato da interprete, ha il compito di redigere rapporti. Inviato a Dresda vive lì il crollo del muro, ed è qui che si scrive la sua prima leggenda. Perché sono mesi convulsi, gli ultimi del 1989, e nella città tedesca la folla si avventa contro un luogo simbolo: l’ufficio del KGB. Alla guida di quell’ufficio c’è, però, Vladimir Vladimirovich che dà la prima prova della sua determinazione. Mentre la massa di persone preme contro i cancelli della struttura, il giovane burocrate scende nel cortile assediato e spiana una Makarov: chi entrerà sarà ucciso, dice. Che sia un racconto agiografico o meno, anche se ci piace pensare che sia vero, è un episodio che rivela molto del personaggio: la sua testardaggine, anche di fronte all’inesorabilità della Storia. È così che inizia la fase più complicata della sua esistenza. Rientrato a San Pietroburgo, da ex agente del KGB, ha poche possibilità di collocarsi in una Russia che, improvvisamente, dopo decenni di lotta feroce, viene travolta dal fascino del consumismo occidentale. Ed è qui, forse, che nonostante le scarse informazioni su questa parte della sua esistenza, che si forma il futuro Zar. Il rancore verso gli Stati Uniti Dobbiamo immaginarcelo per la vecchia Leningrado, che da splendore zarista è divenuta la punta di diamante della rivoluzione bolscevica, e poi si è trasformata in una lurida sentina, con palazzi sovietici in rovina, le strade devastate, l’economia al tracollo, il sistema al collasso. Diventata la meta di traffici loschi, da quello di armi saccheggiate dai depositi dell’Armata Rossa alla prostituzione. L’impressione è che la Russia sia diventata ormai terreno di conquista dell’Occidente. In questo periodo il giovane Vladimir vede nascere in sé quel misto di sentimenti che lo accompagneranno per il resto della sua esistenza: ammirazione verso l’opulenza e la potenza degli Stati Uniti, ma al tempo stesso un rancore sordo, granitico, alimentato dall’atteggiamento che i padroni nel Nuovo Ordine Mondiale hanno nei confronti della Russia. Un insieme di sussiego e arroganza. Lo stesso atteggiamento che – siamo nel 2000 - porterà la NATO a rifiutare un accordo strategico con la Russia. Come a sottolineare l’irrilevanza e il disinteresse dell’Occidente nei confronti di un nemico decaduto. Questo, però avverrà dopo. Perché il percorso dell’ex spia, ex tassista, è ancora lungo, prima di arrivare al Cremlino. Ma almeno, da qui in poi, le informazioni sono meno circonfuse di leggenda. Da sindaco a "uomo dell'anno" Putin si risolleva in fretta e intraprende la carriera politica. Lo ritroviamo nel 1991 sindaco di San Pietroburgo, dopo essersi occupato di promuovere gli investimenti stranieri nella città. In fondo parla un tedesco fluente, e la Germania è tra i primi a credere nelle relazioni con la Russia. Ma è dal 1999 che l’ex apartchik spicca il volo e diventa primo ministro. Affianca uno Eltsin sempre meno lucido, anche se lo indica come suo successore mentre il Caucaso si avvita in una spirale di violenza e caos. E Putin capisce che quella è la grande occasione, almeno per lui. La remota repubblica caucasica, in mano a trafficanti e terroristi, è un enigma perfino per gli stessi russi. L’opinione pubblica internazionale ha poca dimestichezza con una realtà così lontana geograficamente culturalmente, ed è pressoché impossibile avere informazioni di prima mano da quel luogo sconosciuto e misterioso. Insomma: Putin ha le mani libere. Questo non significa che la vittoria sui ribelli ceceni sia facile, o indolore. Verrà ripagata con una stagione di attentati di stampo terroristico. La risposta di Putin è però devastante. E dopo due guerre ne verrà a capo, con metodi brutali che saranno denunciati dalla giornalista Ana Politkoskaja. Più che il risultato finale, conta altro: in concreto ha solo affidato il paese alla dinastia dei Kadyrov, spietati sanguinari signori della guerra, dandogli libertà di azione e di affari, e qui si dimostra pragmatico, ma quel che è più importante è che nell’opinione pubblica ha costruito un’immagine da vero leader, di uomo duro e inflessibile. Dopodiché la sua ascesa è inarrestabile: nel 2007 è l’uomo dell’anno di Time. In questo periodo cominciano a girare le immagini di lui che combatte in kimono da karateka, con prestazioni leggendarie. Si diffonde ad arte la voce che nel KGB avesse anche fatto altro, non solo il funzionario: chissà, forse persino il killer. Si fanno circolare le immagini di lui a torso nudo a cavallo. O mentre pesca le trote in un fiume siberiano, in sella a una moto di grossa cilindrata, in atteggiamenti che confermano la sua aura virile, da macho. Tutto costruito per confermare l’impressione del vero uomo al comando. Presidente ad libitum Poi, nel 2008, non potendo essere rieletto, fa eleggere al suo posto il delfino Dimitri Medvedev, mentre Putin riveste il ruolo di premier. È il periodo in cui Obama corteggia Medvedev nel tentativo di riavvicinarlo all’Occidente. Hillary Clinton prova goffamente a riavviare i rapporti con il suo omologo Sergej Lavrov, porgendogli un pulsante con su scritto “riavvio”. Peccato che la traduzione sia sbagliata e l’iniziativa sia accolta nel gelo. Aggirare Putin è ormai impossibile e la frattura con Mosca insanabile. A scanso di equivoci, scaduto il mandato, Putin allontana Medvedev dalla scena politica e lo relega a un ruolo da comprimario, come vicepresidente del Consiglio di sicurezza, da cui spara bordate deliranti contro l’Occidente. Proprio lui, che a qualche lusinga aveva ceduto. Così si ricandida, viene rieletto e poi confermato dal 2012 al 2018 e, dopo aver cambiato la costituzione, dal 2018 2024 e di nuovo fino al 2030 con un mandato sostanzialmente ad libitum. Alla luce di una carriera così inarrestabile ci sono però anche molte – troppe – ombre. La deriva autoritaria soprattutto, suffragata dalla lunga lista di oligarchi epurati perché troppo potenti o non in linea con la sua politica. Dagli omicidi di oppositori, tra cui spiccano quello della giornalista Ana Politkoskaja, o dell’ex spia Alexander Litvinenko. L’incarcerazione e la successiva misteriosa morte di Aleksei Navalny, il blogger dissidente. Ampio consenso Chiunque vada in Russia però rimarrebbe stupito dall’enorme sostegno in suo favore. E infatti durante le ultime elezioni, proprio poco dopo la morte di Navalny, le proteste sono ai limiti dell’irrilevanza. La sua mano di ferro non suscita affatto ondate di proteste. Se ci sono manifestazioni, sono occasionali e con scarse adesioni, e in ogni caso schiacciate con violenza. La verità è che il suo consenso è ampio, le elezioni plebiscitarie, l’opposizione politica irrilevante. In parte per la repressione, ma in maggior misura per un sincero sostegno dell’opinione pubblica, che ancora rimpiange i fasti imperiali, non certo il pauperismo, dell’Unione Sovietica. Perché è questo il punto cruciale. Putin ha saputo interpretare – perché lo ha vissuto in prima persona – il rancore per il rifiuto dell’Occidente e lo ha trasformato in orgoglio e nostalgia. Per questo le sue avventure militari dalla Georgia all’Ucraina, non hanno visto la minima protesta, ma anzi hanno accresciuto il suo sostegno, riuscendo a mutare quella rabbia e frustrazione in un sentimento di rivincita. Del resto, la guerra in Ucraina è affidata per lo più a militari provenienti da zone remote, la leva non coinvolge quasi il ceto medio e urbano. Così che il dissenso, anche nei confronti dell’ultimo conflitto, è vago, impalpabile. Forza di volontà, determinazione, assenza di scrupoli, hanno permesso a Putin di diventare lo Zar che il partito comunista – da cui è iniziata la sua carriera politica - aveva rovesciato. Un presidente vendicativo Dopo 25 anni al potere non mancano però le ombre, che emergono dai racconti “ufficiosi”. Di un uomo paranoico, malato, con gravi turbe psichiche. Voci che però sanno di disinformatsja occidentale. Sul fronte internazionale si allinea e si stringe in un abbraccio mortale con la Cina. Al suo fianco siedono l’Iran e la Corea del Nord in quella che sembra la parodia dell’Asse del male di Bushiana memoria. In quest’ottica, se non fosse tragico, sarebbe quasi comico il suo avvicinamento all’Afghanistan dei talebani, dopo il catastrofico ritiro dell’Occidente. Una mossa senza alcun senso strategico o economico, ma che conferma un altro aspetto del suo carattere: oltre a essere coraggioso e spregiudicato, il presidente Putin è vendicativo. Tanto.

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Vladimir Putin, 25 anni da zar