Crisi senza fine in Myanmar, pieni poteri al capo della giunta militare

C’è un nuovo colpo di scena nella crisi politica che si consuma in Myanmar ormai da tre anni: tutti i poteri presidenziali sono stati trasferiti al capo della giunta militare, Min Aung Hlaing, dopo che il capo di Stato è stato sospeso per motivi di salute. Una nuova scusa per estendere lo stato di emergenza dichiarato in seguito al rovesciamento del governo civile tre anni fa. A fine ottobre 2023, una coalizione di tre gruppi armati etnici dello Stato Shan ha lanciato un'offensiva coordinata contro la giunta, soprannominata “Operazione 1027”. Sebbene l’offensiva abbia colto di sorpresa la giunta, ha confermato ciò che a molti era apparso chiaro fin dai primi mesi del conflitto: con il colpo di stato del febbraio 2021, i militari hanno ripreso il potere, ma mai il controllo completo del paese. La situazione ad oggi sembra essere sbilanciata a favore della resistenza, ma resta fluida. Per capire come si è arrivati a questo punto è importante guardare alla storia del Myanmar: quello in atto non è il primo colpo di Stato né la prima crisi che il paese attraversa; questa volta, però, le condizioni e gli elementi in gioco sono diversi. Un passato che ritorna Il golpe del 1° febbraio 2021 fu una sorpresa, ma anche la riprova di un legame con il passato che non era mai stato davvero tagliato. Dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948, il Myanmar – o Birmania – ha avuto una storia travagliata, per la maggior parte vissuta sotto il controllo repressivo e violento dei militari, il Tatmadaw. Nel 2010, però, era iniziata una graduale democratizzazione che aveva portato a elezioni multipartitiche nel 2015 e all'insediamento, un anno dopo, di un governo guidato dalla veterana leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi. Per cinque anni si è respirata aria di cambiamento. Ma, per quanto l’apparenza fosse quella di un paese indirizzato verso un percorso democratico, i militari non hanno mai davvero lasciato il potere. Infatti, la costituzione del paese è sempre rimasta quella scritta dal Tatmadaw nel 2008. Così le forze armate hanno sempre preservato dei privilegi sostanziali, tra cui quello di aver sempre garantito il 25 per cento di seggi in Parlamento e di poterlo sciogliere in casi di calamità nazionale. A riprova del fragile equilibrio su cui si reggeva il governo democraticamente eletto di Aung San Suu Kyi, c’erano le continue violenze ai danni della minoranza musulmana Rohingya, una delle questioni etniche più complesse che i militari si portano appresso almeno dal 1982, quando i Rohingya furono riconosciuti ineligibili alla cittadinanza. Tra il 2012 e il 2017 le tensioni tra i militari e i Rohingya si intensificarono drasticamente, causando la fuga di oltre settecentomila persone attraverso il confine con il Bangladesh dall'agosto 2017. I rapporti diffusi indicano uccisioni un'escalation tale da portare il Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani a definire la situazione nello Stato di Rakhine “un esempio da manuale di pulizia etnica”. Una transizione congelata Tra mille questioni irrisolte, la transizione democratica inaugurata nel 2010 aveva cambiato radicalmente la vita delle persone in gran parte del paese, soprattutto tra le nuove generazioni. Questo assaggio di libertà era bastato a lasciare nella popolazione una sensazione ed una consapevolezza che sono oggi alla base del malcontento popolare. Dopo il golpe di tre ani fa, inizialmente, la popolazione è insorta in modo pacifico. Lo ha fatto con forme di protesta spesso innovative, come la discesa in piazza in sella agli elefanti. Ben presto, però, davanti alla repressione spietata della giunta, si è passati a una vera e propria guerra civile tra il Tatmadaw e il Governo di Unità Nazionale , un esecutivo ombra formato da membri del partito di Aung San Suu Kyi e della società civile, spalleggiato in maniera disordinata da una miriade di altri gruppi armati di resistenza alla giunta sparsi nel paese. Una svolta dal destino incerto Ad oggi, la situazione in Myanmar rimane estremamente instabile. L'operazione 1027 ha segnato una svolta, sottraendo alla giunta il controllo di zone e infrastrutture strategiche. Ciò grava pesantemente sull'economia del paese e sulla vita delle persone, vittime degli scontri, costrette a fuggire o a vivere in un'economia compromessa che non offre più opportunità. Secondo un recente report del Special Advisory Council for Myanmar e vari media indipendenti, il Tatmadaw ha perso il pieno controllo su circa il 60-80% del territorio del Myanmar. Aver perso il controllo su gran parte del paese e non essere in grado di garantire la sicurezza nelle zone di passaggio e lungo il confine mette a rischio il principale elemento di riconoscimento della giunta agli occhi di paesi che, come la Cina, in questi anni hanno continuato a sostenerne opacamente l’attività. Il conflitto, articolandosi con sempre più forza lungo le regioni di confine costituisce infatti un pericolo sempre più concreto per la stabilità dell’intera regione.