Yahya Sinwar, l'anima nera di Hamas

“Sì, sono stato io”. La scena si svolge in una sala degli interrogatori dello Shin Bet, dove persino gli agenti del servizio segreto interno israeliano rimangono colpiti dalla freddezza con cui l’uomo ammette di aver ucciso un collaboratore. Un’ammissione che lo porterà in prigione per 22 anni, e da cui uscirà solo dopo lo scambio per la liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano tenuto prigioniero a Gaza per oltre 5 anni. Il nuovo capo di Hamas, Yahya Sinwar, è descritto bene da questo episodio. Freddo, spietato, lineare nella sua brutalità. Un terrorista convinto, insomma. Anche se poi – a scavare un po’ più in profondità - i racconti sulla sua personalità sono un po’ più contraddittori. Tra chi lo descrive come uno psicopatico privo di emozioni, impavido e con lo sguardo assente, e chi invece lo tratteggia come un vigliacco, paranoico, che implora l’aiuto dei medici israeliani quando gli viene diagnosticato un tumore al cervello, poi rimosso con successo. La sfumatura estremista del fronte palestinese Se però dal lato israeliano ne esce una figura malata, corrotta nel profondo dell’animo – quale che sia la versione che si preferisce – sul versante palestinese, invece, emerge un personaggio certamente controverso, ma coerente. Quello di un esponente dell’ala radicale e integralista di Hamas, privo di dubbi o incertezze. Sinwar, per certi aspetti, rispecchia un lato – il più estremo - della questione palestinese. Perché al di là delle rivendicazioni e le istanze comuni, si tratta di una realtà molto più composita di quanto non sembri all’esterno. Nella politica palestinese, già divisa tra Gaza e Ramallah, tra laici e religiosi, tra sostenitori dell’Islam politico e della lotta armata, tra Fatah e Hamas, ci sono infinite sfumature. Anche all’interno del movimento islamista. Sinwar rappresenta quello estremo, senza compromessi. Quella parte oscura, basata sull’odio e il rancore, che immagina solo una risposta violenta, militare, alla quasi secolare crisi mediorientale. Lui è l’incarnazione della lotta militare e dello spirito di vendetta. In parte è stata la sua vita a portarlo su questo lato. Una vita da intransigente Nato nella misera Khan Younis da una famiglia molto religiosa profuga della Nakba, si laurea in studi arabi all’Università Islamica di Gaza. Si unisce fin dall’inizio a Hamas, la formazione islamista fondata dallo sceicco Yassin. È l’epoca in cui la lotta palestinese è monopolizzata dalle formazioni laiche, come Fatah di Yasser Arafat, o il Fronte Popolare di Liberazione Palestinese. Il fatto che lui si unisca agli islamisti dà la cifra del suo credo. E il suo credo è il jihad, la Guerra Santa. È intransigente, e da giovane spicca per la sua fervida attività contro i negozi che – nella Gaza laica di quegli anni – vendono merce Haram, proibita, come l’alcol, ma soprattutto pornografia. Aura di crudeltà Intrapresa questa strada, la percorre senza incertezze, fino a diventare un elemento di spicco nell’eliminazione dei collaboratori di Israele. E su questa parte della sua vita sono numerosi gli episodi – dall’aura leggendaria – che ne descrivono la risolutezza e la crudeltà. Come quando avrebbe costretto un collaboratore a seppellire vivo suo fratello, ma con un cucchiaio anziché la pala. Vero? Chissà. Certo è che la sua fama è circonfusa da un alone cupo, inquietante, che sembra confermare quanti – anche tra i palestinesi – lo descrivono come un feroce assassino. Svolta radicale La sua nomina al vertice di Hamas viene considerata da molti analisti come una sorta di colpo di stato interno: la morte di Ismail Haniyeh, che con Khalid Meshaal incarnava l’ala pragmatica, politica, ha provocato una svolta radicale che per certi versi era scontata. L’assassinio del massimo rappresentante dei “politici”, che puntavano a una sorta di legittimazione internazionale, e che giravano per la capitali arabe in cerca di sostegno, era già un segnale da parte di Israele: la sfiducia nei negoziati. A capo dell’organizzazione va dunque chi ha ideato e realizzato gli attentati del 7 ottobre, l’azione che ha rappresentato la pietra tombale per qualsiasi soluzione politica della questione palestinese. Forse, si potrebbe dire, che il progetto di Sinwar fosse proprio questo. Quello di tagliare ogni “deriva” di dialogo. Perché, nella sua visione, l’unica soluzione è l’eliminazione della cosiddetta “entità sionista”; vuole una Palestina che vada dal Giordano al Mediterraneo, e che cancelli la presenza israeliana. L'uomo dei "no" Lui è l’uomo dei tunnel, dei razzi, che coordina la guerriglia in superficie. Mentre il mondo arabo annunciava la nomina di Muhammad Ismail Darwish al vertice di Hamas, da Gaza arrivava la smentita. Darwish è il responsabile economico dell’organizzazione, alla fin fine un politico, incline al compromesso. Sinwar è l’uomo dei no: no allo scambio di prigionieri, no al cessate il fuoco, no alle mediazioni. Ha sempre guardato con disprezzo chi non ha vissuto a Gaza, chi non ha combattuto, chi ha indossato la cravatta. Negli equilibri interni viene considerato l’uomo più vicino a Teheran, ma gli ayatollah, che pure lo stimano, gli avrebbero preferito Darwish, più malleabile, gradito anche al Qatar. Con la sua ascesa ha prevalso la linea granitica. E Israele ha subito replicato con un commento durissimo: “l’unico posto di Sinwar è a fianco di Deif”. Ma dove si trova? Mohamed Deif era il braccio destro e fedelissimo di Sinwar, ucciso il 13 luglio scorso in un raid israeliano. Anche lui un artefice del 7 ottobre. In tutto questo, però, la sua nomina non è esattamente sorprendente. Considerato che anche da parte israeliana sta prevalendo la linea dura e che la stessa eliminazione di Haniyeh ha facilitato il consolidamento della linea radicale. La sua nomina, inoltre, risponde a un interrogativo che rimbalzava da tempo. E cioè se Sinwar fosse vivo. Evidentemente lo è. Non è chiaro, invece, se stia ancora nei tunnel – e nel caso sarebbe complicato coordinare il movimento dalle profondità della terra – oppure se sia fuggito al di fuori di Gaza utilizzando una galleria segreta. Certo è che non lo vedremo in pubblico, neanche nelle capitali “amiche”, vista la capacità di Israele di eliminare i propri avversari. E se la sua nomina non è sorprendente – stupisce, semmai, chi ne è rimasto colpito – è altrettanto chiaro che conseguenze avrà nell’area. L’Iran, che è pragmatico ai limiti del cinismo, ora sa di poter fare affidamento totale sul suo alleato a Gaza, così come delle milizie Hezbollah libanesi a nord. L’Asse della Resistenza – cioè dei nemici di Israele – è ora molto più solido.