A dieci mesi dal 7 ottobre: Israele è un paese sempre più diviso

Il 7 ottobre scorso ha scatenato una tempesta su Israele e su tutto il Medio Oriente, mettendo lo stato israeliano di fronte a un conflitto su più fronti che si estende dalla guerra in corso a Gaza, alla contrapposizione con Hezbollah a nord, fino allo scontro con l’Iran. Data l’entità e la complessità delle sfide sul piano regionale, molto spesso si tende a tralasciare l’analisi di un ulteriore fronte aperto, che sta attivamente e inesorabilmente influenzando l’evoluzione degli eventi in tema di sicurezza e politica estera: il fronte interno. Quanto accaduto sul piano interno dal 7 ottobre a oggi è essenziale per comprendere a fondo la direzione intrapresa da Israele e quali potrebbero essere le evoluzioni a Gaza e nell’intero Medio Oriente. L’onda d’urto di quella mattina di dieci mesi fa si è abbattuta sulla concezione stessa dello stato di Israele, la cui nascita e finalità primaria è consistita nella creazione di un rifugio sicuro per il popolo ebraico. Oltre alla tragica morte di vite umane, per Israele il 7 ottobre ha significato anche la fine di quella sicurezza esistenziale che sino a quel giorno mai era stata così duramente messa alla prova. L'assenza di un piano diplomatico Lo scorso 2 agosto, l’uccisione dei 12 bambini di Majdal Shams ad opera di un razzo di Hezbollah è stata seguita dall’eliminazione per mano israeliana del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran e del leader di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut, gettando nuove ombre su Israele: l’allargamento del conflitto all’intera regione è diventata ancora più probabile, l’accordo sugli ostaggi è stato nuovamente rimandato e, di conseguenza, il termine delle operazioni a Gaza si è ulteriormente allontanato dall'orizzonte delle possibilità. Questi sono i “danni collaterali" di cui il premier Netanyahu era ben consapevole mentre autorizzava queste operazioni che, in ultima analisi, rispondono al desiderio del primo ministro di prolungare la guerra in corso a Gaza. Dopo dieci mesi, Netanyahu e il suo esecutivo non hanno ancora proposto un piano diplomatico per disinnescare la situazione, nonostante la maggioranza degli israeliani continui a ribadire che il ritorno degli ostaggi sia la vera priorità nazionale. È una richiesta, che con insistenza le famiglie degli ostaggi e le piazze continuano a ribadire, a cui il governo Netanyahu non sembra voler dare ascolto. Il 21 luglio, l’istituto di ricerca Migdam ha pubblicato un sondaggio secondo cui il 70% degli israeliani riterrebbe responsabile il primo ministro del mancato raggiungimento di un accordo per la liberazione degli ostaggi mentre, solo il 21% ritenga sufficienti gli sforzi effettuati. La linea del governo sta quindi entrando sempre più in collisione con le richieste dei manifestanti che, ricordiamo, hanno continuato a manifestare dal 2023. Sfiducia diffusa e attriti interni Tra il governo israeliano e l'opinione pubblica sembra non esserci prospettiva di dialogo e nel paese si respira un profondo clima di sfiducia, alimentato dall’assenza di una strategia chiara di lungo periodo da parte dell’esecutivo, ma anche dalla percezione che il primo ministro stia agendo sulla base di considerazioni politiche personali, invece che nell’ottica di un interesse nazionale. In sintesi, il fine ultimo di Netanyahu sarebbe quello di prolungare il più possibile lo sforzo bellico per garantire la sopravvivenza della coalizione di governo, la cui data di scadenza sarebbe strettamente legata alla fine delle operazioni militari a Gaza. Infatti, in quel momento verrà istituita una commissione nazionale d’inchiesta per esaminare le responsabilità della tragedia del 7 ottobre. Questo obiettivo sta strutturando e radicalizzando l'azione politica di Netanyahu che, sulla soglia di una escalation così pericolosa, ha intrapreso una campagna contro i vertici della difesa e dell’intelligence, nonché contro il suo stesso ministro della Difesa Yoav Gallant. Lo scollamento, per non dire ormai lo scontro, tra il primo ministro Netanyahu e gli alti funzionari della difesa israeliana è ormai ufficiale e noto al pubblico. Il principale punto di frizione è il raggiungimento di un accordo sul rilascio degli ostaggi con Hamas, ma l’attrito si protrae fin dall’inizio della guerra, quando i generali hanno cercato di convincere Netanyahu a fornire loro un quadro strategico più chiaro. Ma la campagna di delegittimazione intrapresa da Netanyahu e dai suoi accoliti non si rivolge solamente contro i vertici dell’esercito israeliano: è anche diretta a minare la legittimità degli organizzatori delle proteste, del procuratore generale e della Corte Suprema, cioè di quelle istituzioni e componenti della società civile che si sono opposte in passato alla riforma giudiziaria e che oggi contestano la linea adottata dal governo in questi ultimi 10 mesi. Assalto alle istituzioni In Israele riemerge così quel senso di divisione che aveva caratterizzato i mesi precedenti al 7 ottobre, una profonda incertezza rispetto alla tenuta del tessuto della società israeliana e delle sue fondamenta. Gli eventi accaduti nei giorni scorsi, quando le basi militari di Sde Teiman e Beit Lid sono state prese d’assalto da un gruppo di manifestanti, soldati e parlamentari di estrema destra, confermano la rilevanza e la concretezza delle preoccupazioni in merito alla coesione nazionale. Si è trattato di un assalto deliberato da parte dell’estrema destra alle istituzioni statali, nel contesto della normalizzazione di molteplici comportamenti ritenuti inaccettabili fino a qualche anno fa: l’irruzione della folla nelle basi militari è l’ennesima linea rossa oltrepassata. Se le autorità non agiranno fermamente contro i responsabili c’è il rischio che le divisioni interne possano realmente sfociare in atti di violenza vera e propria. Dallo scorso ottobre in Israele si sta configurando una situazione senza precedenti: una continua delegittimazione delle istituzioni e di parti della società civile da parte degli organi di governo. Seppur nel bel mezzo di una guerra aperta, in Israele è in atto uno scontro tra esercito ed esecutivo e uno scollamento netto e inesorabile tra la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana e il governo in carica, che invece di ascoltare i cittadini convalida le posizioni dei suoi membri più estremisti. Queste fratture sembrano essere giunte a un punto di non ritorno: senza un cambio di direzione, le ferite al tessuto della società israeliana potrebbero rendere impossibile affrontare le sfide esterne che imperversano su Israele.

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