Proteste in Bangladesh, è braccio di ferro fra studenti e governo per i posti nella Pa

“No alle quote, sì al merito”. È lo slogan più ripetuto nel corso delle proteste in corso in Bangladesh da diverse settimane consecutive. Ad animarle sono gli studenti, esasperati dalla mancanza di prospettive di lavoro e da un sistema di quote nelle assunzioni nel settore pubblico che favorisce una piccola minoranza a discapito di tutti gli altri. Tutto è partito dalle Università, nello specifico da quella di Dhaka, principale istituzione accademica del paese, dove la scintilla è divampata in incendio. Una sentenza controversa I manifestanti chiedono la cancellazione di un meccanismo di discriminazione positiva che favorisce i parenti di chi ha preso parte alla lotta per l’indipendenza del Paese dal Pakistan nel lontano 1971. In base alle regole vigenti chiunque abbia avuto un freedom fighter in famiglia ha accesso garantito a un posto di lavoro nel settore pubblico. La quota riservata ai famigliari dei reduci è pari al 30% dei posti statali. La quota per i parenti dei reduci era stata sospesa, dopo altre proteste studentesche, nel 2018, ma un tribunale recentemente l’ha reintrodotta. Da qui la rabbia degli studenti, alimentata da un commento del primo ministro Sheikh Hasina che ha definito i manifestanti dei “razakars”, il termine denigratorio che durante la guerra di indipendenza veniva dato a chi collaborava con Islamabad. Sono arrivati poi gli attacchi di gruppi fedeli al partito di governo, la Lega Awami , in particolare la sua ala studentesca Bangladesh Chhatra League e la durissima repressione delle forze dell’ordine, che hanno iniziato a sparare sui manifestanti, usare gas lacrimogeni e granate stordenti. Secondo cifre non ufficiali, il bilancio è di oltre 150 vittime e migliaia di feriti. Dopo settimane di scontri di piazza, la Corte Suprema ha ribaltato la sentenza e ridimensionato le quote; solo il 5% sarà destinato ai discendenti dei combattenti per la libertà. Per le strade il malcontento si è placato ma non sopito. Questo perché, fin da subito, la questione delle quote si è unita ad istanze più generali, ad espressione delle precarie condizioni socioeconomiche e politiche in cui versa il paese. Un sistema che non premia il merito Resosi indipendente dal Pakistan nel 1971, il Bangladesh ha raggiunto lo status di paese a reddito medio-basso nel 2015 ed è in lizza per abbandonare la lista dei Paesi meno sviluppati delle Nazioni Unite nel 2026. Secondo la Banca Mondiale, più di 25 milioni di persone sono uscite dalla povertà dall’inizio di questo secolo. Ciononostante, la percezione tra chi protesta è che questo arricchimento abbia giovato soprattutto gli esponenti della Lega Awami – principale organizzatore della resistenza durante la guerra di indipendenza – al quarto mandato di governo consecutivo. Anche le quote rientrerebbero in questo schema, premiando la vicinanza al partito. Le nuove generazioni hanno conosciuto essenzialmente solo il governo dell'AL e di conseguenza indirizzano le loro frustrazioni verso un partito al potere per il quale le elezioni non sono più percepite come un meccanismo di responsabilità. Nel caso degli universitari, ad alimentare la loro rabbia vi è il modello di sviluppo economico abbracciato dal paese, che sembra avere poco da offrire ai giovani istruiti. Negli ultimi due decenni, il Bangladesh si è affermato come leader globale nell’esportazione di vestiti, un settore che vale circa 40 miliardi e impiega oltre 4 milioni di persone. Le condizioni di lavoro negli stabilimenti che producono i capi di abbigliamento, però, sono state ampiamente documentate nella loro disumanità, con ritmi di lavoro estenuanti per paghe bassissime. I giovani laureati ambiscono ad altro, ma faticano a trovarlo. Dei 18 milioni di giovani bengalesi che cercano lavoro, il tasso di disoccupazione più alto si registra proprio tra gli universitari. Si spiega così anche la loro rabbia per la questione delle quote: lavorare nel pubblico è una delle alternative più sicure per chi esce dall’università. Una sfida per Sheikh Hasina Se il problema delle quote sembra essere stato risolto, la gestione delle proteste con il pugno di ferro ha portato con sé nuove richieste e nuove frizioni tra il governo e i manifestanti. Si invoca il rilascio dei manifestanti incarcerati, processi per gli agenti di polizia che hanno ucciso i cittadini e le dimissioni di Hasina e altri ministri. La situazione rimane estremamente volatile mentre anche l'opposizione, schieratasi con i manifestanti, sembra essersi rianimata. La violenza rappresenta la sfida più seria degli ultimi anni per Sheikh Hasina – figlia del padre della patria Sheikh Mujibur Rahman assassinato in un colpo di Stato nel 1975 – e attualmente al suo quinto mandato, il quarto consecutivo come primo ministro, in un'elezione controversa boicottata dai principali partiti di opposizione.